“Cari prof, siamo arrivati alla fine!”
Cronache più o meno serie di due studenti di quinta alla vigilia del diploma
E così ci siamo. L’ultimo giro di orologio. L’ultima campanella si avvicina e noi ci guardiamo intorno come superstiti di un naufragio: spettinati, stanchi, e con una vaga idea di chi siamo diventati (forse). Dopo cinque anni di interrogazioni, compiti a sorpresa (spoiler: non lo sono mai) e caffè alle macchinette al retrogusto di metallo (categoria alimentare a parte), la quinta superiore volge al termine.
Questo, lo diciamo subito, non è uno di quegli articoli strappalacrime. Niente “la scuola è la nostra seconda casa”, niente “ci mancherete tutti”, niente “un pezzo di cuore rimarrà qui”. Se volessimo proprio lasciare un pezzo di noi, saranno le nostre AirPods dimenticati sotto il banco. La verità è che la fine della scuola, per noi, è un misto tra evasione e una specie di crisi d’identità condita da un vago terrore dell’Esame di Stato.
Ma parliamo ora dei professori. Li abbiamo temuti, sfidati, invidiati per le ferie estive, imitati nei messaggi vocali (ci scusiamo pubblicamente per questo), ma tutto sommato li salutiamo con un certo rispetto. Non abbiamo avuto angeli custodi o tiranni assoluti, ma esseri umani: alcuni severi, altri così tranquilli che durante la spiegazione potevi quasi sentire crescere l’erba sul prato.
Ci sono stati i prof che non hanno mai smesso di credere in noi, anche quando noi non credevamo neppure nella connessione Wi-Fi della scuola. Quelli che ti facevano sudare per un 6 e quelli che sorridevano durante le interrogazioni, fieri dei loro studenti.
Ma sono stati, in qualche modo, parte di questo gioco. Anzi, in certi giorni, tra un commento su Leopardi e un esercizio di derivata spiegato con (poca) pazienza, hanno persino saputo esserci davvero. Non sempre, non tutti, ma abbastanza da farci capire che qualcosa – forse – ce lo portiamo dietro.
C’è poi chi dice che la scuola prepara alla vita. Noi diciamo: dipende da che vita. Sicuramente ora sappiamo calcolare il dominio di una funzione e analizzare il messaggio poetico di Montale, anche se ancora ci sfugge come si compili un modulo in posta o si paghi una bolletta.
Abbiamo vissuto per cinque anni tra banchi troppo piccoli, veneziane bloccate, gite annunciate e poi cancellate (con una frequenza che merita una statistica), registri elettronici consultati più spesso di Google, e avvisi dati con 10 minuti di anticipo. Tuttavia, abbiamo anche riso, inventato scuse geniali, condiviso pizzette e paure e imparato l’arte suprema del “massì, lo studio domani mattina in treno”.
Abbiamo scoperto che il vero spirito scolastico non sta nella media finale, ma nella solidarietà pre-verifica, nel passaggio del bigliettino, nei gruppi WhatsApp dal nome improbabile tipo “5A/Lazzaretto”.
E ora, come in ogni serie tv, arriva la prova finale: l’Esame di Stato. Ce lo hanno presentato come la prova della maturità. Peccato che non ci dicano quale. Per ora, l’unica vera maturità è stata sopportare cinque ore di lezione con la macchina del caffè fuori uso e senza il bar.
La prima prova ci costringe ad un confronto epico con autori che, probabilmente, non abbiamo mai capito del tutto. La seconda sarà un tuffo nella nostra materia “di indirizzo” (che è proprio quella che ci ha fatto tremare per cinque anni). E poi l’orale, il momento del grande vuoto mentale accompagnato da sorrisi tirati e frasi tipo “Scusi, ma non so cosa collegare”
La scuola è finita, sì, ma non tutto è da buttare. Anzi. Ci ha (anche) insegnato qualcosa, anche quando pensavamo il contrario. Non sempre ciò che diceva il programma, magari. Ma la pazienza, la resistenza alla noia, la capacità di fingere interesse e quella di non arrendersi mai, nemmeno quando il terzo compito della settimana minacciava il nostro stato mentale.
Non ci mancherà tutto, ma qualcosa sì. Magari i corridoi pieni di voci, il panico pre-verifica, le battute fatte sottovoce e capite solo dai compagni di banco.
E ai professori, diciamo solo: grazie!. Grazie per averci supportato, sopportato e sostenuto in mezzo a mille chat, scuse improbabili e risposte da manuale di persone che si arrampicano sugli specchi. Non sempre vi capiamo, ma ci avete lasciato qualcosa. E noi, nel nostro piccolo, speriamo di avervi fatto un po’ sorridere. O almeno, di non avervi fatto perdere la testa.
Ora possiamo davvero dirlo: è finita. Ma tranquilli, è stato (quasi) divertente anche per noi.
P.S. Un po’ ci mancherete (forse)
di Caterina Sanvito 5CLSA e Federico Fontana 5ALS, due studenti (ancora per poco) di quinta scientifico