Cari lettori, di seguito troverete alcuni “brani scelti” tratti da elaborati scritti da alunni della classe 5^CLL, che si sono confrontati con la seguente traccia di maturità, contenente un passo dello Zibaldone di Leopardi; il tema, antico quanto l’uomo stesso e sempre attuale, è la ricerca della felicità.
«Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma. Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra sé medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano. Del resto, tali fini vaglion poco in sé, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l’immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad essi e di procurarli. L’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo.»
G. LEOPARDI, Zibaldone di pensieri, in Tutte le opere, a cura di W. Binni, II, Sansoni, Firenze 1988, p. 4518,3
La citazione tratta dallo Zibaldone di Leopardi propone una sorta di “arte della felicità”: secondo Leopardi la vita trova significato nella ricerca di obiettivi che, se raggiunti, ci immaginiamo possano renderci felici. Rinunciando a questa ricerca, ridurremmo la nostra esistenza a “nuda vita” fatta solo di superficialità e vuotezza. Ritieni che le parole di Leopardi siano vicine alla sensibilità giovanile di oggi? Rifletti al riguardo facendo riferimento alle tue esperienze, conoscenze e letture personali.

Senza fune si può uscire dal mulinello?
Non è da molto tempo che esisto su questa terra, ma la domanda “Perché vivi?” mi angustia dalla più tenera età. Quando avevo 10 anni la scrissi su un foglio che appesi al centro della bacheca di camera mia, sopra il calendario degli impegni della settimana; era più importante. Mia sorella mi prese in giro, poi pochi giorni fa mi ha chiesto scusa. “Scusa” perché pensa sia colpa sua se poi ho dovuto crescere “facendo la figlia facile”, imparando a leggere, studiare e cavarmela da sola. Giada, colei per la quale rinuncerei alla mia stessa vita, si sente un peso addosso, come se, se lei fosse stata diversa, io avrei avuto la possibilità di maturare più dolcemente, di godermi un poco l’infanzia e di non ricevere quei complimenti a cui ambivo: “Sei una bambina così precoce.”. Io non penso che lei sia responsabile della mia personalità, poiché credo che volere bene a qualcuno significhi anche capire le diverse necessità dell’altro, e che sia stata una mia scelta di lasciare che l’aiuto dei miei genitori andasse a chi ne aveva maggiormente bisogno.
Maturare in fretta mi ha portato a bruciare delle tappe; in particolare il periodo che ho vissuto lontano da casa mi ha catapultato qualche anno avanti, ma allo stesso tempo mi ha dato l’opportunità di tornare indietro. Senza più la protezione di un luogo amico ho conosciuto la Spensieratezza, mi sono presentata a lei, e l’ho abbracciata. Lei appartiene solo a quelli che Leopardi, nel passo dello Zibaldone fornito, definisce, a mio parere erroneamente, uomini “senza scopo”, e sembra così comune tra i miei coetanei. Sembra. Devo ammettere che inizialmente avevo una grande paura dell’”Hakuna Matata”. Forse era troppo tardi per poter recuperare quell’infanzia perduta, perché ero e sono conscia che una volta compiuta la maggiore età si dovrebbe iniziare a prendere scelte consapevoli in vista del futuro, assumersi responsabilità, impegnarsi per poi avere una possibilità di successo in seguito. Ma ero, in egual modo, felice. Uso ora, e per il resto del tema, questo termine, siccome, per quanto banale appaia, non ho mai potuto utilizzarlo sinceramente. La felicità. L’avevo trovata. E dove? In quella vita che mi ero sempre preclusa, ugualmente a Leopardi, incartandomi a riflettere sul fine che essa doveva per forza avere. Per la prima volta avevo realizzato che non era necessario prenderla così sul serio. Prendermi così sul serio, senza concedermi di sbagliare, fallire, ripetere, ma mirando perennemente all’eccezionalità, la quale però non andava di pari passo con l’essere la versione migliore di me stessa. Anzi, mi aveva inviluppato in un circolo falso e apatico dal quale non mi districavo. Ciò succedeva perché in realtà non ero a conoscenza della mia situazione; solo adesso, con calma, rileggendola, vorrei calare una fune per la me stessa di allora, a cui aggrapparmi per farmi trascinare via. Io non penso che Leopardi sia riuscito a nuotare abbastanza lontano da quel mulinello dal quale non nego che potrei venire nuovamente risucchiata, e questo fatto mi fa provare pena nei suoi confronti. Aveva un desiderio così ardente di vivere da non intravedere la bellezza del reinventarsi e di trovare godimento nelle più piccole cose, senza assillarsi con domande delle quali non scorgeva le risposte, ma semplicemente facendo ciò che lo faceva stare bene. O forse ha intravisto tutto ciò, ma non è riuscito ad acchiappare quella fune.
Io credo nella felicità come “contentezza”, o più precisamente “gratitudine”. E’ la mia parola preferita in assoluto, la quale però inizialmente, essendo io atea, pareva un’ipocrisia. “Ma grata a chi?” mi veniva domandato. Il segreto è che ho fiducia. Fiducia che alcune risposte le incontrerò percorrendo la mia strada, perché rileggendo le mie vecchie poesie e riflessioni, colme di interrogativi, ecco che comprendo quanto mi sono arricchita nel tempo trascorso. E fiducia che in un modo o nell’altro, magari non nella maniera perfetta che ho desiderato, ma ogni pezzettino andrà a collocarsi nella sua casella.
Secondo la mia personale opinione, inseguire la felicità (o gli obiettivi leopardiani) e non lasciare invece che essa accada liberamente, trovando spontaneamente la sua casella, riduce la nostra vita ad una frustrazione continua, la stessa di cui parla Leopardi riferendosi all’emozione provata durante il tentato, ma vano, sforzo di raggiungere il Piacere Assoluto. Sono però in disaccordo con la sua affermazione che, rinunciando a questa ricerca, la nostra esistenza si riduca a qualcosa di superficiale e vuoto. Anzi, sono convinta che tale atteggiamento ci dia la possibilità di affrontare la vita con leggerezza e allo stesso tempo riflettendo, ma senza permettere al pensiero di soverchiare la continuità della gratitudine. Inoltre, ci permette tante altre cose. Di cogliere molte più opportunità nascoste, conducendo paradossalmente una vita piena. Di fermarsi ad ammirare il mondo e stupirci della sua vitalità. Di essere un po’ tutti come il commendatore di Guareschi che, davanti a un’alba, a quarant’anni, comprende come essa “non sia una cosa ovvia”. Spero che i più giovani, dei quali faccio parte io stessa, se ne possano rendere conto prima del raggiungimento dei quarant’anni.
Penso che i miei coetanei si dividano in tre fazioni: i leopardiani e gli scioperati, i quali vanno entrambi aiutati, anche se in maniera diversa, e i “grati”, coloro che cercano di mantenere in equilibrio le due altre categorie all’interno della loro mente. Credo che sia possibile far parte di quest’ultimo gruppo solo dopo aver sperimentato i due precedenti, secondo un processo triadico hegeliano del tipo: tesi, antitesi e sintesi. Nel mio caso sono cresciuta leopardiana, e questa è la mia tesi, mi sono negata, vivendo una fase di scioperataggine alla Baudelaire, ed ora è tempo di trovare una sintesi delle due, integrando e concatenando l’una all’altra, per divenire nella gratitudine. Confido che ciò sia possibile.
Al momento la domanda “Perché vivi?” sulla mia bacheca è nascosta da stralci di poesie, frasi, pagine di romanzi. Nascosta, ma riesco a intravedere un angolino di quel foglio color autunno.
Anna Longoni
Felicità
Al giorno d’oggi la felicità pare un concetto irraggiungibile e l’uomo sperimenta molteplici vie per la sua conquista, sebbene, molto spesso, si renda conto della loro natura illusoria. Ogni tentativo pare vano, ogni scappatoia immaginaria non permette di raggiungere pienamente ed in modo duraturo questo concetto strano ed indefinito chiamato “felicità”.
Io, per quanto posso dire di conoscere la mia generazione, noto costantemente, anche nei contesti più banali, come giovani ragazzi, per il timore di non sentirsi soddisfatti della propria vita, per la paura che essa non venga completamente vissuta, passino da un’avventura ad un’altra, come se la loro stessa esistenza fosse stata concepita come un gioco. Eppure, quel senso di vuoto ed insoddisfazione non cessa di tormentare i loro animi, nonostante cerchino di dissimularlo continuamente con nuove frivolezze.
Questa situazione, che sono certa abbia attraversato l’anima di chiunque, non è troppo diversa da quella presentata dall’onestà intellettuale di Gabriele d’Annunzio nella produzione delle proprie opere letterarie. La sua stessa vita si muove sull’approvazione e poi sulla confutazione di tentativi di fuga, che sono inevitabilmente destinati a fallire per lasciare spazio a quella stessa vanità a cui Leopardi, soprattutto nel corso degli ultimi anni di vita, ha dedicato tanta attenzione.
Questa manifestazione della realtà è appunto emblematica in opere come Il Piacere di d’Annunzio, in cui il protagonista Andrea Sperelli vive come uno di “quegli scioperati e spensierati che passano di godimento in godimento”, come racconta Leopardi nel suo Zibaldone. Insomma, conduce una vita all’insegna della frivolezza, basata su insegnamenti che pongono il piacere perfino al di sopra della morale comune, designando così un’esperienza di vita che sfiora la “corruzione”, come d’Annunzio stesso afferma nel romanzo. Ma come l’autore sottolinea al termine dell’opera, il sogno d’esteta di Sperelli tramonta e quello che rimane di un’esistenza di divertimenti è fallimento, illusione, vanità. Non a caso, infatti, il protagonista di questo capolavoro degli ultimi anni dell’Ottocento, costituisce l’alter ego di d’Annunzio, che ha sperimentato e toccato con mano il fallimento dell’ideale dell’esteta. Credo che questa compenetrazione tra autore e personaggio mostri una realtà valida per chiunque, anche a distanza di più di un secolo. Sarebbe inutile negare che ciascuno di noi non abbia cercato almeno una volta la felicità in una vita al di sopra della quotidianità, della banalità, inducendoci a ricercare l’apice del piacere in futili esperienze, nella speranza di trovare un poco di questa felicità su cui anche Lopardi ha a lungo discusso.
La dimostrazione dell’attualità di queste riflessioni, che si muove oltre alla vicenda di fantasia di un romanzo, è stata affermata in una splendida lode all’autore di Recanati da Alessandro d’Avenia, nello scritto L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita. La bellezza di questo libro risiede nella capacità che lo scrittore ha avuto nell’attualizzare un tema che, con l’inizio del ventunesimo secolo, è stato parzialmente dimenticato o che, per lo meno, è ora dato per scontato: la felicità dell’uomo. Giusto ieri sera stavo leggendo questo libro, quando il racconto di un’esperienza personale di d’Avenia ha attirato la mia attenzione. Evocava il ricordo di una supplenza, in cui, per evitare di condurre una lezione monotona in un lunedì altrettanto monotono, decise di chiedere agli alunni quali obiettivi ed ambizioni li facessero sentire soddisfatti, gratificati, felici. L’autore racconta di come i visi dei ragazzi si illuminarono mentre le loro labbra formulavano sogni ed aspirazioni. Racconta di come quei pensieri li rendessero pieni di vita. E’ con queste parole che d’Avenia omaggia Leopardi della sua stessa tesi, secondo cui “l’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo”, come si dice nel testo.
Noi uomini, a partire proprio da quest’ultima generazione e dai giovani che della vita non sanno un granché, ignoriamo il complesso meccanismo che si cela dietro al discorso della felicità. Io credo che sia questo il motivo per cui l’umanità tende a colmare il proprio animo di godimenti, a ricorrere a questo “oppio dei popoli” che è la ricerca sfrenata del piacere, per poi scoprire, ogni volta in maniera più dolorosa, come questa momentanea pienezza di sé sia vuoto, superficie. Eppure, ci convinciamo, nonostante i continui disinganni, che questa sia in qualche modo la chiave per una vita completa.
Forse la soluzione, una magra, ma vera consolazione, è quella che ci propone Leopardi: l’idea di possedere uno scopo, qualcosa a cui ambire che possa dare un senso ad un’esistenza che altrimenti non ne avrebbe alcuno, l’idea di una ricerca che possa occupare l’animo e che abbia la forza di donarci soddisfazioni ed una sensazione di completezza al suo solo pensiero, un po’ come ciò che d’Avenia lesse sul volto di quei ragazzi mentre i loro sogni riempivano la stanza. Forse la chiave per un’esistenza completa risiede nell’ambizione, in condizioni che tengano lo spirito impegnato in modo costante, nell’attesa e speranza di raggiungere ciò per cui si è sempre lottato.
Non credo, però, che il divertimento debba essere condannato o bandito dalla nostra quotidianità. Fa parte dell’esperienza esistenziale, è giusto che sia così; solo, non è in grado di colmare un’anima, la parte più remota e sconosciuta dell’uomo, con la superficialità del piacere provvisorio; non può essere via di fuga dalla condizione esistenziale, non può essere il centro della felicità umana.
Carolina Maggi
Viver felice
«Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice»; ma noi giovani siamo sempre più scoraggiati, teniamo lontano il futuro e pensiamo solo al presente, che ci appare ancora colorato, anche se in via di appannamento. Per noi conta l’ora, il qui, l’euforia momentanea che cura le preoccupazioni annidate tra i nostri pensieri, che spazza via l’idea di ciò che verrà, e con essa qualsiasi nostra inclinazione a progettare un futuro, a decidere cosa vorremmo fare e chi vorremmo essere — tutto è meglio dell’angosciante realtà, del terrorizzante atto di prendere scelte.
Alla nostra “inettitudine” si aggiunge la fobia della morte, un pensiero che ci provoca le vertigini: è una prospettiva paralizzante che, invece di invitarci ad ideare sogni di vita per cui lottare, ci induce a cancellare il pensiero stesso, come se fosse uno sbaglio, un difetto di fabbrica.
Se ci immaginiamo come un libro, le nostre pagine non presentano che un inizio, poi si susseguono vuote, senza fine alcuno: la nostra storia è composta da spazi bianchi che ci terrorizza riempire; allora preferiamo non aprire quella porta che ci condurrà al futuro, la chiudiamo a chiave nell’attesa di un momento ideale, perfetto, in cui poterla socchiudere, momento che non giungerà mai e ci lascerà senza fiato, travolti dal succedersi di eventi che non abbiamo mai preso in considerazione — e non avremo altra scelta che esserne vittime.
La vita di noi giovani è sempre più priva di obiettivi, schiava dell’”idilliaca” quotidianità e delle vie di fuga che essa offre; i social sono tra i primi fautori della nostra inerzia, con le distrazioni che ci promettono, i “sogni facili” spesso irrealizzabili: ci garantiscono che potremo ottenere grandi successi senza il minimo sforzo.
Ma la realtà è tutt’altra cosa, per raggiungere la felicità autentica bisogna che l’uomo si “fabbrichi esso stesso de’ beni”.
Ho fatto conoscenza con persone che hanno sprecato anni nell’ illusoria aspettativa che la vita prendesse decisioni al loro posto, loro che progetti non ne avevano e non ne hanno mai avuti.
Quegli «scioperati e spensierati che passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza mai aversi posto uno scopo a cui mirare abitualmente» hanno gettato ogni speranza e sono entrati nel loro inferno personale, dove la pena da pagare non ha prezzo, bloccati in un infinito tunnel in cui di felicità non v’è ombra, solo svaghi momentanei per anestetizzare il dolore di non aver fatto abbastanza e l’incapacità di realizzare che c’è ancora tempo, perché una data di scadenza ce l’abbiamo tutti, ma se non è ancora giunta, allora si deve lottare per i propri sogni.
Io stessa ho vissuto un periodo in cui la quotidianità mi appariva tanto idilliaca da non sentire il bisogno di progettare un futuro, come se ciò fosse abbastanza per non farlo arrivare mai, come se così potessi rimanere quindicenne per sempre, con tanti sogni ma nessuna voglia di realizzarli.
Quello era il mio inferno personale ed uscirne è stato incredibilmente faticoso, perché rimanerci era confortevole, molto più del pensiero di dovermi rimboccare le maniche e mettere in moto la mia vita.
Siamo tutti bravi a sperare, ad immaginare: vogliamo di tutto, ma non siamo disposti a compiere il benché minimo passo verso l’oggetto del nostro desiderio.
È un continuo aspettare, come se il tempo non ci scivolasse via dalle dita, correndo sempre più veloce: a lui in fondo che importa se noi rimaniamo fermi?
A noi però dovrebbe importare, l’idea di non correre a nostra volta dovrebbe logorarci, farci realizzare quanto sia necessario avere degli obiettivi da inseguire e quanto sia vuota e priva di significato la nostra vita senza di essi.
All’”arte della felicità” di Leopardi preferiamo l’ignoto, un avvenire sconosciuto, che col tempo finirà per renderci totalmente immobili, come statue la cui unica possibilità è quella di guardarsi intorno e provare un’immensa invidia per chi è riuscito a liberarsi dalle spine della propria inettitudine.
Forse siamo contenti così, o forse non abbiamo il coraggio necessario per disegnare il nostro destino.
L’unica cosa certa è che nessuno può prendere in mano le redini della nostra vita se non noi stessi — e se vogliamo essere felici, davvero felici, non possiamo rimanere fermi, ma dobbiamo unirci al tempo nella sua interminabile corsa.
Sara della Malva
L’importanza di un sogno
Il celebre poeta ed intellettuale italiano Giacomo Leopardi riflette spesso, nelle sue opere, su come l’uomo possa essere felice. In un passaggio dello Zibaldone, diario che raccoglie i suoi piú profondi pensieri, si riferisce alla necessità di porsi uno scopo al fine di vivere lieti. Proprio nel raggiungimento di tali obiettivi consisterebbe infatti la tanto agognata felicità.
Personalmente, trovo questo pensiero molto vicino alle mie più recenti riflessioni. Non posso certo negare che in passato, quando ero più piccola, le mie preoccupazioni non si estendessero oltre la più ingenua superficialità. Recentemente, però, la necessaria scelta universitaria mi ha imposto di riflettere su temi più seri e profondi. Mi sono dunque convinta del fatto che con la scelta universitaria determinerò il mio futuro e, di conseguenza, la presenza o assenza di felicità nella mia vita. Secondo la logica di Leopardi, che condivido pienamente, io potrò vivere una vita degna di essere vissuta solo nel caso in cui la scelta dell’università si riveli essere quella più adatta a me. In tale modo sarò in grado di pormi obiettivi per cui lavorerò con buone intenzioni e molta volontà.
A questo punto sorge però spontaneo un dubbio che non posso ignorare. Sebbene non ci abbia mai riflettuto prima, è sicuro che io in passato ho avuto una serie di scopi che mi hanno dato la possibilità di provare quella gioia che compensa la naturale, nuda, esistenza.
È molto semplice per me identificare l’ambito di origine di tali scopi: la scuola e tutto ciò che essa implica. Si tratta dell’istituzione che ha riempito le mie giornate per la maggior parte della vita, che è sempre stata nei miei pensieri, che è stata causa di molte delle mie soddisfazioni. Eppure, seguendo questa linea di pensiero, non posso essere certa di concordare con l’affermazione di Leopardi. Il dubbio nasce infatti dagli innumerevoli momenti di crisi di cui la scuola per me è stata causa.
È dunque giusto affermare che la felicità di una persona risiede nel raggiungimento di un obiettivo? Ciò certamente non si può negare, ma è necessario sottolineare un altro importante fattore che deve essere tenuto in considerazione. Credo infatti che lo scopo che ciascuno di noi necessariamente si pone non debba limitarsi a un riconoscimento che venga dall’esterno. L’esempio che è per me emblematico ed efficace per spiegare questa mia idea sono i voti scolastici. Questi non possono essere considerati il segno del raggiungimento di un obiettivo, perché esterni all’individuo. Conosco perfettamente la convinzione, sbagliata, che un voto definisca la persona. Il problema di questo modo di pensare è relativo al fatto che il voto non può realmente, sempre descrivere un individuo e il suo lavoro, proprio perché è esterno ad esso. Questo ragionamento, che è spesso dato per scontato, molte volte non viene considerato dai giovani di oggi, i cui scopi sono essenzialmente legati alla percezione che gli altri hanno di loro. In questo modo essi basano, erroneamente, la loro felicità sul giudizio altrui, la cui positività rappresenta il massimo scopo.
Diventa dunque molto difficile, nella scelta del proprio futuro, scoprire degli obiettivi che possano veramente svelarsi fonte di piacere una volta raggiunti. Come ho già accennato, per fare ciò è necessario indagare le proprie passioni.
Da tale riflessione nasce la mia crisi, così come quella di molti altri: la ricerca di un obiettivo personale. Se fino ad ora ho sempre potuto contare sulla costante presenza della scuola, che si è offerta come paracadute, è giunto il momento in cui sento che la mia decisione influenzerà i miei obiettivi futuri. Più precisamente, le mie riflessioni vertono spesso sulla mancanza di un obiettivo chiaro. Secondo questo ragionamento, infatti, se avessi un fine ultimo sarebbe per me molto più facile scegliere la facoltà universitaria, e anche il percorso stesso si rivelerebbe meno pesante, proprio per la presenza di quello scopo finale. Mi ritrovo spesso a disperare, a causa di questo elemento mancante che sento gravare su di me.
I miei genitori hanno molte volte tentato di convincermi del fatto che solo vivendo potrò finalmente identificare una ragione per condurre un’esistenza felice, ma io ho sempre trovato difficile questo ragionamento. Ciò che mi ha aiutata a comprendere meglio tale mentalità è una poesia dello scrittore spagnolo Antonio Machado, nella quale il poeta svela che il cammino della vita non è segnato, ma si compone man mano lo si percorre. Quando abbiamo letto il testo in classe, la mia mente si è subito diretta verso i ricorrenti pensieri riguardanti questa ricerca di un obiettivo e mi sono resa conto di come forse essa non dovrebbe essere così frenetica, perché è la sperimentazione che ci permette di comprendere le aspirazioni della nostra anima. Logicamente, solo dopo aver vissuto una esperienza posso conoscere con sicurezza il mio atteggiamento verso di essa. Si comprende quindi come sia fondamentale una sperimentazione diversificata e la successiva riflessione a riguardo. Appare dunque immediato il valore delle esperienze di vita per la scelta dei propri obiettivi.
Ai bambini si ricorda continuamente l’importanza di avere un sogno, ed io solo ora comprendo come ciò voglia semplicemente prepararli a quella incessante ricerca di sogni che è la vita. E penso a quale strano animale sia l’uomo, che, senza la soddisfazione di realizzarli, si sente vuoto.
Chiara Redaelli
La vanità del tutto
La riflessione compiuta da Leopardi in questo passo dello Zibaldone, a parere mio, è una verità oggettiva della vita di tutti noi, ma alla quale la maggioranza delle persone non bada e preferisce non pensare. Per quanto riguarda me, però, è un tema sul quale ragiono spesso e che mi provoca un senso di vuoto e inutilità.
Che senso ha vivere se non si ha un obiettivo o un’ambizione alla quale aspirare? Non sarebbe la “nostra” vita, ma saremmo spettatori passivi delle vite altrui. D’altro lato, però, che senso ha avere e raggiungere un traguardo, se puoi muoio e nulla ha più importanza? Secondo questo punto di vista, la cosa più sensata sarebbe vivere tranquilli e senza fare sforzi, perché tanto “prima o poi moriremo”, ma si ritornerebbe punto e a capo, dal momento che vivere così non ha alcun senso.
Per chi ha una visione positiva del post-mortem, la soluzione è (forse) più semplice: godersi la vita e raggiungere risultati, e nulla sarà vano poiché tutto continua in una vita successiva. Per chi, come me, ha una visione atea del mondo, è più complicato: in entrambe le situazioni analizzate precedentemente ci sono incongruenze, dunque, pensandoci razionalmente, la soluzione più ragionevole sarebbe morire ora, ma così il mondo non andrebbe avanti (e anche qui, cosa importerebbe? A che scopo portiamo avanti l’umanità se ci estingueremo tutti?).
L’unica cosa che spinge l’uomo ad andare avanti credo sia la curiosità. Ritengo che la cosa più sensata da fare sarebbe morire, ma dall’altro lato vorrei vivere all’infinito per scoprire cosa succederà all’umanità: andremo a vivere su Marte? Troveremo una cura per il cancro? Ci sarà una terza guerra mondiale? Come sarà l’uomo tra un milione di anni?
Come farei, però, a vivere così a lungo, ma anche solo per altri settant’anni, senza uno scopo? Riguardo a ciò ho una visione piuttosto leopardiana. Quello che faccio io, è riempire il mio tempo per non pensarci.
Se prima provavo un senso di vuoto quotidianamente nel fare questi ragionamenti profondi e passavo pomeriggi a cercare invano una soluzione, quello che faccio da cinque mesi a questa parte è essere occupata dalla mattina alla sera, e terminare la giornata così stanca da addormentarmi subito.
Tutti i giorni cerco di non lasciarmi nemmeno un buco per riposare, poiché appena mi sdraio sul divano con la televisione accesa, so che sto perdendo tempo che potrei utilizzare facendo qualcosa di produttivo, e involontariamente mi sento come se stessi vivendo per nulla; anche se in realtà sto davvero vivendo per nulla.
Come sosteneva anche Giacomo Leopardi nella fase del pessimismo cosmico, il fine al quale dobbiamo ambire è la morte, e fino a quel momento noi uomini dobbiamo illuderci con piccole gratificazioni che ci permettono di pensare che stiamo vivendo con uno scopo.
Qualcuno potrebbe sostenere che la cosa alla quale aspirare è lasciare un segno nel mondo, così, anche dopo la nostra morte, saremo ricordati e nulla sarà stato inutile; ma anche il mondo e l’umanità fra pochi milioni di anni termineranno, e tutto andrà in frantumi.
Sempre seguendo l’opinione leopardiana, sostengo che sia vero che i primi uomini, come anche le persone ignoranti di adesso, vivano meglio: sia per quanto riguarda il fatto che non pensano alle cose negative che succedono nel mondo, ma anzi vivono nella loro inconsapevolezza; ma soprattutto per quanto riguarda il discorso appena affrontato. I cosiddetti “perdigiorno” o coloro che non hanno responsabilità, pensieri e nulla da fare durante la giornata (scuola, lavoro o sport che sia) e che vivono nell’ignoranza, mi sembrano vivere in una condizione di (apparente?) tranquillità.
Inoltre, proprio perché tutto è vano e insensato, nulla riesce realmente ad appagarci. Raggiungendo i piccoli obiettivi della vita, ci sentiamo soddisfatti, ma interiormente sappiamo che ciò non ha alcun valore, e ci poniamo obiettivi sempre più alti con il fine di essere felici. Proprio per questo, la felicità di per sé non esiste, e, una volta terminato il momento di felicità provvisoria, ritorniamo tristi come prima.
Ragionando superficialmente, alcuni potrebbero sostenere che, confrontando la mia situazione con quella di persone meno fortunate di me, come chi sta vivendo una guerra o chi non può permettersi il cibo, io dovrei essere davvero felice, dal momento che non mi manca nulla. Ma secondo questo ragionamento, io dovrei pensare la stessa cosa di chi è ancora più fortunato di me e vive in una villa gigantesca e con soldi infiniti, e così via.
La verità è che nessuno è soddisfatto completamente della propria vita, e non sono le cose materiali che ci permettono di essere appagati.
In conclusione, non ci sarà mai una vera conclusione: bisogna riempire il nostro tempo in funzione di compensare la “vanità del tutto” e quella felicità che non raggiungeremo mai, fino alla nostra morte.
Marta Didone