sunt lacrimae rerum

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Uno strascico di almeno 7 metri, velo e abito interamente ricamati a mano, tessuti pregiati, un numero non inferiore alle 20 000 perle vere applicate lungo tutta la metratura del vestito, una moltitudine di pietre preziose e paillettes. Sono questi i requisiti per un abito da sposa che passi alla storia, che sia in grado di lasciare un segno indelebile nell’ambito dell’alta moda di tutto il mondo. Proprio questa, infatti, è la richiesta della principessa di Inghilterra, la quale ha preso la decisione di affidare questa ardua e rischiosa impresa ad un spavaldo stilista, che orchestrerà la realizzazione del capo. Quest’ultima avverrà grazie alla collaborazione di più parti: una prestigiosa casa di houte couture parigina, un atelier di merletti ad Alençon e un laboratorio di ricamo di Mumbai; ognuno dei quali vincolati da rigide clausole di riservatezza, come richiesto dal protocollo reale e dalle regole della sartoria di lusso. 

Tale dinamica è il presupposto da cui nasce la rappresentazione teatrale “Lacrima” di Caroline Guiela Nguyen, regista francese di origini vietnamita-indiana-algerina, messa in scena in prima nazionale dal 28 al 30 novembre al teatro Stehler di Milano, a cui gli studenti partecipanti al progetto “Piccolo Teatro di Milano” hanno avuto l’opportunità di assistere. 

Lo spettacolo ci narra il processo, in un periodo di tempo di otto mesi di duro lavoro, della delicatissima realizzazione dell’abito. Tuttavia “Lacrima”, oltre a mostrare l’euforia e l’orgoglio dei dipendenti, ma soprattutto della neo nominata direttrice dell’atelier francese, oltre allo splendore delle lucenti perle sapientemente applicate dai ricamatori indiani e alla sacralità della tradizione dei merletti di Alençon; ci mostra anche ciò che solitamente rimane nascosto, celato agli occhi del mondo esterno, segregato sotto alle migliaia di metri quadri di stoffa del mondo dell’alta moda. In questo modo la vicenda della produzione dell’abito si intreccia con le vite personali dei lavoratori coinvolti, facendo viaggiare costantemente il pubblico tra i tre luoghi nei quali si articola la storia. 

In primo piano spicca la storia di Marion, responsabile della casa di houte couture al numero 8 di rue du Faubourg Saint-Honoré a Parigi. Nelle prime scene la giovane donna è colta dall’orgoglio e dalla soddisfazione personale di essere stata nominata per questo ruolo di grande spessore e responsabilità; intrisa di spirito di iniziativa e voglia di fare, sprona tutti i suoi collaboratori, determinata a portare a termine quella che sarà la commissione più importante della sua intera carriera. Nonostante ciò, filo dopo filo, nodo dopo nodo, è sempre più evidente come l’idillio iniziale si mostri per ciò che è realmente, rivelando ad ogni scena la sua cruda realtà, permeata da insostenibili fatiche, desideri incompiuti e illusioni perdute. Ad alimentare le difficoltà in ambito lavorativo è l’ambiente che si crea nell’atelier di Parigi, dove lavora anche il marito di Marion, il quale si dimostra sempre più aggressivo e ossessivo nei confronti della moglie, fino a sfociare in veri e propri momenti di violenza e abuso. Tutti questi fattori conducono la sarta parigina verso un lento declino straziante, che metterà a dura prova la sua integrità psicologica. Nel suo turbamento un ruolo chiave è giocato dai segreti che ella è costretta a tacere: oltre a quello del patto di segretezza internazionale legato all’abito da sposa che accomuna tutti i personaggi dello spettacolo, è anche oppressa dal peso di quello dei maltrattamenti da parte del marito. 

Riscontriamo questa dinamica non solo in Marion, ma anche in molte altre delle figure che compaiono in scena. Abdul Gani, ricamatore di Mumbai a cui è stato affidato il duro compito di applicare con precisione una ad una le perle sul tessuto e che è costretto a lavorare giorno e notte per consegnare il prodotto concluso entro i tempi dettati dall’Occidente, è obbligato a tacere sul fatto che sta progressivamente perdendo la vista. Ad ogni gemma applicata, che si confonde sempre di più con le altre diventando ora dopo ora sempre più sfocata, la sua imminente cecità diventa impossibile da nascondere, tormentando il povero Gani, che spera di garantire un futuro migliore alla sua amata figlia. Anche Thérèse, merlettaia di Alençon, cela da anni nel silenzio un peso che porta sulle spalle, quello di essere a conoscenza della “vergognosa” malattia mentale della sua defunta sorella, che però si trova a dover rivelare nel momento in cui sua nipote Rosalie manifesta gli stessi sintomi e si trova in pericolo di vita. 

Prendiamo così coscienza del fatto che il vero protagonista della storia non è il sontuoso vestito che la regina d’Inghilterra indosserà il giorno delle nozze, bensì tutte quelle vite pressate dai segreti che questo comporta. Segreti che, tramite una sottile metafora, vengono paragonati dalla regista ad un incendio, un fuoco che brucia nella coscienza di ogni persona sul palco, che incenerisce le membra dei personaggi dall’interno, consumandone l’animo senza che chi lo osserva da fuori si accorga di nulla. Più il tempo scorre e più le fiamme vengono alimentante, si stagliano sempre più alte nutrendosi delle debolezze dei personaggi che sono costantemente sul punto di crollare, come appesi a un filo che minaccia si rompersi catapultandoli nel mezzo dell’incendio. La frenesia e l’angoscia di finire entro i tempi previsti il capo commissionato soffoca ogni collaboratore al progetto, proprio come il fuoco sottrae l’ossigeno all’aria dell’ambiente circostante; così le merlettaie trattengono il respiro per non sbagliare nemmeno un punto, Rosalie rischia la vita a causa della malattia che non permette al suo cervello di essere raggiunto da un adeguato quantitativo di ossigeno, Marion è asfissiata dall’uomo che dovrebbe amare ma che non le permette di avere nemmeno l’aria che le è essenziale per vivere. Tutte le persone nel teatro sono in apnea, attori e pubblico: per continuare a vivere è necessario SPEGNERE L’INCENDIO. 

Senza dubbio “Lacrima” è uno spettacolo che non può lasciare indifferenti, non appena mi sono alzata dalla poltrona della platea non ho potuto far altro che interrogarmi su tutti i significati e i messaggi nascosti che l’opera teatrale potrebbe celare dietro ogni scena, e sono fortemente convinta che lo stesso sia successo a tutti gli altri spettatori che quella sera erano presenti al Teatro Strehler. Aldilà dell’indubbia denuncia di meccanismi internazionali perversi, ciò che davvero colpisce del lavoro di Caroline Guiela Nguyen è la capacità di indagare i moti più intimi dell’animo umano, quelli all’origine delle “lacrime” fra gli strettissimi punti di un ricamo e le minutissime pieghe di un abito da sposa. In tal modo pubblico e privato si riflettono l’uno nell’altro, offrendo allo spettatore uno specchio nel quale riconoscersi. Infatti, ho avuto occasione di osservare da un punto di vista differente tutte quelle volte in cui anche io, come Marion, Thérèse, Abdul, ho sentito sulle spalle il peso schiacciante di difficoltà che mi ostinavo a voler risolvere da sola, senza dover contare sull’aiuto di nessuno, come se mantenere quel segreto fosse di vitale importanza per avere successo senza trascinare altre persone nello stesso baratro da cui tu stesso stai cercando di sfuggire. La visione di questo spettacolo, però, mi ha permesso di far luce su come questo atteggiamento in realtà danneggiasse in primo luogo me stessa, che senza rendermene conto ero sempre più asfissiata a causa della poca aria che mi rimaneva, mentre ero immersa tra le fiamme. Per fortuna, così come ci insegna “Lacrima”, anche io mi sono successivamente resa conto che per tornare a respirare è necessario trovare l’audacia di esternare ciò che ci tormenta, di dire la verità, che non è altro che un atto di coraggio in grado di liberare l’anima, di estinguere le fiamme. 

Bisogna trovare il coraggio di SPEGNERE L’INCENDIO.   

Pirovano Anna, 5^BLS