
I
Mentre la città correva dietro al finestrino, lei, con le guance rigate dalle lacrime, non osava guardarlo. Con gli occhi appannati dal pianto seguiva la luna che a tratti spariva e ricompariva tra i rami di un albero o il tetto di una casa, ripercorrendo con la mente e con il volto rivolto verso il cielo la prima notte trascorsa sotto le stelle. Dietro a quel celere pensiero una cascata di ricordi inondò l’abitacolo dell’auto, mentre la voce di lui divenne un dolce sottofondo nel silenzio della sera.
II
Si conobbero alla fine del mese di marzo, sul nascere della primavera, quando il sole ricominciava a scaldare il terreno e le primule, puntuali, rivendicavano il loro primato fra i ciuffi d’erba verde. Si conobbero nella stagione dell’amore, come affermano i grandi poeti; nel momento in cui il mondo pareva risvegliarsi, carico di promesse, dal suo lungo letargo; quando il termine dell’ultimo anno di scuola iniziava ormai a farsi tangibile e la maturità non sembrava poi essere così lontana. Eppure, durante quelle prime tiepide giornate, manifesto di addio all’inverno, gli studenti erano spensierati.
Con i volti stanchi, ma emozionati, viaggiavano a gran velocità sotto le luci rosse dell’alba, diretti verso l’Austria, mentre la scuola, ogni secondo sempre più distante, diventava velocemente un ricordo lontano.
Dopo qualche breve ora di sonno, di teste abbandonate sul finestrino e labbra socchiuse, le prime voci iniziarono a correre per il corridoio dell’autobus e la trepidazione dell’ultima gita si fece a poco a poco palpabile. Qualcuno leggeva, osservando a tratti il paesaggio colorato di un ultimo bianco invernale, altri, con gli occhi serrati, ascoltavano musica ad alto volume, nel tentativo di coprire il vociare che si faceva strada tra i sedili. Altri ancora giocavano a “Chi sono?” strappando post-it e pezzi di carta, qualcuno più coraggioso cercava nuove amicizie fra i volti sconosciuti dell’altra classe o chiacchierava a voce alta ignorando i rimproveri delle insegnanti.
Sul calare della sera, con il tramonto dipinto sulla linea dell’orizzonte e l’entusiasmo affievolito dalla stanchezza, la meta era ormai vicina. Le strade e i vicoli di Vienna, illuminati dalla luna e dalle luci, si materializzarono sotto i loro occhi, mentre i cori, cantati a gran voce, riaccendevano gli animi.
Tutto, al di fuori del finestrino, pareva così diverso. Il cielo blu cobalto incorniciava i palazzi che, imponenti, portavano su di sé le tracce ottocentesche della secessione. I lampioni rischiaravano i giardini fioriti, incuranti del freddo viennese, e persino il modo di camminare delle persone risultava insolito. Era ciò che pensava C., osservando al di là del proprio riflesso specchiato nel vetro e della condensa prodotta dal suo respiro. Mentre la città la rapiva e i mormorii di sottofondo intonavano un’altra canzone, lei ignorava che tra quelle note disarticolate si nascondesse la voce di cui, qualche tempo più tardi, non avrebbe più potuto fare a meno.
L’autobus si fermò di fronte al Wombat’s City Hostel, uno splendido edificio di cinque piani in stile Art-Nouveau, situato accanto al Naschmarkt, il mercato più popolare di Vienna. Alla vista dell’insegna colorata recante il nome dell’ostello, i ragazzi scesero impazienti, spingendo e facendo a gara per recuperare i bagagli il più velocemente possibile.
All’interno, la hall pareva un enorme soggiorno: divani, poltrone, pouf colorati, sedie e tavoli di ogni dimensione fungevano da cornice ad un’ampia reception, dove tre portieri attendevano il loro arrivo. Sulla destra, una porta nascondeva una sala giochi, fornita di tavoli da biliardo, e un bancone bar illuminato da una luce soffusa e bluastra. Accanto, delle scale conducevano al piano superiore, dove al mattino veniva servita la colazione.
Di fronte a tanta eccitazione, turisti stranieri e addetti dell’ostello guardavano straniti e divertiti la schiera di studenti che con fervore aspettava di precipitarsi nei dormitori per lasciare le valigie e respirare l’aria vespertina della città.
Il freddo, la fame e la stanchezza, infatti, non avevano in alcun modo scalfito l’entusiasmo, che quella notte si tradusse nell’attesa del giorno successivo, in cui Vienna si sarebbe finalmente svelata sotto la naturale luce del sole.
III
La sveglia suonò presto quella mattina. Alle 8 in punto studenti e insegnanti avevano monopolizzato gran parte della sala colazione e mentre qualcuno era già vestito e pronto in vista dell’imminente uscita per le strade della città, altri, reduci da un sonno profondo, si aggiravano per i tavoli in pigiama con aria stordita.
Disposti su una pila di tristi vassoi, marmellata, pane, prosciutto e formaggio erano gli unici alimenti destinati alla scolaresca, che con invidia adocchiava le montagne di croissant e le vaschette di frutta poste in bella vista sul bancone del buffet, aspettando impazientemente di uscire dal Wombat’s per testare qualche tipico dolce viennese.
La posizione dell’ostello, a questo proposito, sembrava favorevole. Accanto all’edificio, sul lato opposto della strada si estendeva per oltre un chilometro il famoso Naschmarkt, il più noto e ricco mercato di Vienna. Una sfilata di bancarelle colorate di fiori e di prodotti della gastronomia internazionale, predatrice di turisti provenienti da tutto il mondo. I banconi, disposti sulla destra e sulla sinistra di un’ampia piazza, erano adornati con ogni genere alimentare: carne, pesce, frutta e verdura, formaggi, vini e olive gigantesche. Gli aromi si alternavano e si mescolavano richiamando ora da una parte, ora dall’altra l’attenzione degli studenti affamati, che annuivano distratti alle affermazioni della guida turistica.
T., l’accompagnatrice che li avrebbe condotti per le vie della capitale nelle ventiquattro ore successive, era una donna sulla sessantina, bassa, con capelli biondi ossigenati e con un accento svogliatamente austriaco, per cui le risultava impossibile pronunciare la lettera “U”. Si indispettiva facilmente e non era raro sentirla borbottare qualche lamento all’orecchio della prima insegnante che le capitasse sotto mano.
“Non mi ascoltano!” brontolava sbuffando. Oppure “Chiacchierano sempre così?”, chiedeva sul limite di una crisi di nervi.
Del resto, come biasimarli? Alla vista di monumenti e palazzi la guida si cimentava in noiose ed interminabili spiegazioni, che i malcapitati in prima fila fingevano di ascoltare con interesse, mentre irrequieti attendevano la meritata ora d’aria, che il più delle volte consisteva in una misera pausa di sessanta minuti.
L’itinerario per Vienna era fitto e il tempo ristretto. Avevano poco più di un giorno a disposizione per visitare musei ed edifici storici, per percorrere la città lungo le rive del Danubio e conoscere l’immensa eredità imperiale degli Asburgo. Così, camminando a passo sostenuto per le strade della capitale dietro alla falcata inaspettatamente lunga di T., la prima mattina in città trascorse velocemente. Nel giro di poche ore avevano sfilato lungo le ventiquattro sale riccamente decorate di Hofburg, ammirato il Bacio di Klimt nel sontuoso Castello del Belvedere e passeggiato accanto alle torri di Stephansdom e allo storico teatro viennese, la Wiener Staatsoper.
Nel pomeriggio, per la gioia degli studenti, la visita guidata proseguì in autobus. Guidando sotto indicazione di T., l’autista, che avrebbe condotto i ragazzi da una parte all’altra dell’Austria, raggiunse le rive del Danubio e proseguì la tratta lungo il fiume. Assonnati dal tepore del sole che faceva capolino sui loro visi, nessuno prestava attenzione ai racconti di T., mentre i palazzi storici sfilavano sotto i loro occhi e le strade viennesi si diramavano verso il centro della città.
Così, in breve tempo, la luce del giorno lasciò spazio al rosso del tramonto e, mentre qualcuno sonnecchiava appoggiato al vetro del finestrino, l’autobus si fermò accanto all’ostello, costringendo i ragazzi a scendere per un’ultima cena nella capitale.
Quella sera il menù non si rivelò particolarmente entusiasmante e destò la diffidenza dei più schizzinosi, che con sospetto rigiravano il cucchiaio nella zuppa di frittata, senza accennare ad assaggiarla. Lo stesso trattamento fu riservato alle costine di maiale di dubbia cottura e ad una sorta di canederlo duro come la pietra e completamente insipido.
C. ispezionava con attenzione quasi chirurgica la carne, rigirandola nel piatto con il coltello, e rinunciò ad assaggiarla quando vide che le sue compagne non sembravano intenzionate a farlo. Trascorse buona parte della cena a lamentarsi della fame e della cultura gastronomica viennese, che di certo non rientrava nell’incantevole patrimonio della città, riscuotendo in questo modo i consensi delle amiche sedute accanto a lei.
Nel tavolo a fianco, parte della classe dello sportivo, composta interamente da ragazzi, stava chiedendo il bis per ognuna delle portate. Mangiavano e ingurgitavano qualsiasi cosa venisse posta loro di fronte, senza che il fisico magro e muscoloso, guadagnato con anni di sport e grazie ad un metabolismo incredibilmente veloce, ne risentisse in alcun modo. Accanto, le ragazze li guardavano con un misto di disgusto e invidia e ridacchiando si chiedevano a voce bassa come potessero mangiare in una simile maniera.
C., sussurrando nell’orecchio della compagna a fianco, guardava i volti sconosciuti di quei ragazzi, ma non ne seppe riconoscere alcuno. Qualcuno era girato di spalle, e non riuscendo a scorgere nessun viso, notò con aria divertita che gran parte di loro portava gli stessi capelli ricci e voluminosi, che li rendeva quasi indistinguibili.
Dopo un breve istante distolse lo sguardo e riprese a chiacchierare con le compagne sedute al tavolo. Aveva appena ricominciato a parlare quando lui, a pochi metri di distanza da lei, si voltò scoprendo il profilo e richiamò con un braccio alzato l’attenzione del cameriere.
IV
L’indomani l’autobus, nuovamente carico di valigie e zaini, proseguì verso ovest, alla volta di Innsbruck. A distanza di due giorni dalla partenza gli entusiasmi si erano placati. Regnava un silenzio tombale e, fatta eccezione per qualche mormorio, gran parte degli studenti dormiva, appisolata sulla spalla del compagno seduto di fianco. Il paesaggio, al di fuori del vetro, era spoglio, dipinto di un grigio autunnale. Le strade correvano ad alta velocità accanto ad alberi senza foglie e a prati color giallo senape, mentre una coltre di nubi nascondeva la pallida luce del sole. Lo scenario, quasi malinconico, sembrava presagire la vicinanza di Mauthausen e la desolazione del panorama suggeriva l’avvicinarsi del tristemente noto campo di concentramento della cittadina. Alla vista dell’immensa struttura il silenzio si fece ancora più cupo e ammutolirono anche le ultime voci superstiti dei viaggiatori, che taciturni osservavano ora la recinzione di filo spinato correre al di là del finestrino. Per qualche minuto l’atmosfera si fece gelida e, sebbene l’autobus avesse ormai passato i confini della cittadina, nessuno osò proferire parola. Solo una voce maschile, qualche posto più avanti, si levò nel corridoio.
C., che in silenzio osservava il cielo scuro e reggeva sulla spalla la testa di A., la sua compagna di viaggio, si mise in ascolto. Coglieva a malapena le parole che, pronunciate a bassa voce, si propagavano tra i sedili, e così, tendendo l’orecchio, si sporse per guardare meglio. Di fronte a lei, all’altezza della seconda porta d’uscita dell’autobus, un ragazzo, circondato dai volti rapiti dei suoi compagni, stava parlando. Una folta chioma di capelli ricci e castani nascondeva parzialmente il volto posto di profilo e un accenno di barba definiva i suoi lineamenti. Gli occhi erano celati da lunghe ciglia e fu impossibile, sul momento, saper definire con chiarezza il loro colore. Indossava una giacca leggera sulle tinte del blu e dell’azzurro e portava dei pantaloni scuri, tendenti ad un verde petrolio. Le gambe, che con invadenza bloccavano il passaggio del corridoio, erano lunghe e le mani, che si muovevano e gesticolavano al ritmo della voce, erano grandi e affusolate.
Mentre parlava, capitava che le labbra rivelassero un accenno di sorriso e che gli occhi si chiudessero leggermente, trasmettendo una dolce sensazione di serenità.
Senza distogliere lo sguardo dai lineamenti di quel viso, C. abbandonò il capo sul cuscino da viaggio che le avvolgeva il collo e, per quanto possibile, si sforzò di ascoltare meglio. Nonostante il rumore delle ruote che sfrecciavano sull’asfalto e il frastuono dei clacson che risuonavano in lontananza, riuscì a cogliere qualche parola, e dall’attenzione che regnava intorno a lui comprese presto di cosa stesse parlando.
Con il busto sporto in avanti e le teste curiose che sbucavano da dietro i sedili, un gruppo di studenti ascoltava con il fiato sospeso il suono di quella voce sconosciuta, che con disinvoltura narrava vicende e aneddoti sulla Seconda Guerra Mondiale. Parlava senza esitazioni, raccontava con naturalezza e spontaneità come se reggesse davanti a sé un copione. Gesticolava accompagnando la melodia della sua voce, dando la parvenza di muoversi su un palcoscenico, mentre gli spettatori, ammutoliti, si perdevano nei meandri di quel monologo.
Rapita dai mormorii che giungevano deboli al suo orecchio, C. non poté fare a meno di notare il volto delle insegnanti radunate qualche posto più avanti, su cui era dipinto, quasi stampato, un leggero sorriso. Anch’esse, risvegliate da quell’unica voce temeraria, sembravano incantate.
Il resto del tragitto verso Innsbruck proseguì in questo modo e quando il sole calò dietro l’orizzonte, lui non aveva ancora cessato di raccontare. Fu durante quel pomeriggio che C., tra i pettegolezzi che correvano sotto forma di bisbigli, scoprì il nome che si celava dietro quella voce: Martino.
Nello stesso arco di tempo scoprì il giorno del suo compleanno, cosa che la fece sorridere per un breve instante. “E’ del mio stesso segno zodiacale” aveva pensato, scordandosi completamente di essere sempre stata restia di fronte a tutto ciò che riguardasse l’astrologia.
Seppe da qualche voce più informata che correva, che sapeva fare giochi di magia e che girava pressoché ovunque con un cubo di rubik nello zaino. Come lei stessa aveva potuto appurare, era un grande amante della storia, motivo per cui presentava una sfilza non indifferente di dieci sul registro di classe, che lo rendevano invidiato dal resto dei suoi compagni.
Girovagava per l’autobus sedendo prima da una parte, poi dall’altra, tenendo in mano una sorta di hand grip, perché, a quanto C. aveva sentito dire, sapeva arrampicare, e capitava di vederlo sfogliare distrattamente un libro che si portava sempre appresso, intitolato “No Hero”.
E mentre il tempo passava e quel nome fino a poco prima sconosciuto prendeva vita, C., con gli occhi poggiati su quel viso illuminato da un ultimo raggio di sole, rimuginava silenziosamente e pensava a tutto ciò che lui, invece, non conosceva di lei.
Non aveva idea di chi fosse, di come si chiamasse, di quello che amava fare. Non sapeva che era nata qualche giorno più tardi di lui, che suonava il pianoforte, che piangeva leggendo Leopardi o che da due anni a quella parte era diventata una giornalista, nella speranza, un giorno, di essere qualcuno. Non sapeva che anche lei amava la storia e che, come lui, sperava in un dieci dipinto sulla pagella di fine anno. Non conosceva quel suo difetto di “dare il mondo” senza aspettarsi nulla in cambio e ignorava le insicurezze che le attanagliavano i pensieri o la gioia che provava stando sdraiata all’ombra di un albero, pensando a quanto si sentisse piccola di fronte alla vita. Forse non avrebbe mai saputo che il suo viso si colorava di tante piccole lentiggini quando le giornate iniziavano ad allungarsi o che il colore della sua iride, alla luce del sole, assumeva la forma di un girasole poggiato su un verde prato.
Tutte cose scontate, forse – aveva pensato C. riflettendoci – ma mai prima di allora aveva desiderato così tanto che qualcuno le scoprisse.
Carolina Maggi