“l’ultimo respiro”

Archivio articoli

26 maggio 2020

La pena capitale è in alcuni paesi ancora contemplata come la più grave delle sentenze ordinabili.
Nelle civiltà antiche è sempre stata prevista per i rei dei crimini collettivamente considerati come i peggiori: stupro, omicidio, incesto, ma anche omosessualità, apostasìa e, più di recente, traffico di droga.
In passato in pochi si ponevano quesiti sulla ragionevolezza di una tale pratica; col tempo, tuttavia, è nato nella società il desiderio di porle fine, poiché considerata iniqua e in contrapposizione ai principi sui quali si regge una civiltà evoluta.

Amnesty International dichiara che il numero di morti per pena capitale è sceso del 31% tra il 2018 e il 2019, il numero più basso da 10 anni, ma nonostante ciò si è registrato un aumento delle esecuzioni in Bielorussia, Giappone, Singapore, Sud Sudan e USA. In Thailandia si è verificata la prima esecuzione nel 2009, e il presidente dello Sri Lanka, Maithripala Sirisena, ha dichiarato di voler riprendere le esecuzioni dopo oltre 40 anni. I cinque paesi che più ne fanno uso sono la Cina (1000+), l’Iran (almeno 253), l’Arabia Saudita (149), il Vietnam (almeno 85) e l’Iraq (almeno 52). In Italia la pena capitale è stata in vigore fino al 1899 nel codice penale e reintrodotta dal 1926 al 1947 col fascismo, durante il quale il metodo utilizzato per l’esecuzione era la fucilazione, che avveniva all’interno di uno stabilimento penitenziario.

La pena era (e in alcuni casi ancora è) attuabile con modalità che variano dalle più crude a quelle più “blande”. Questo in sé è un argomento scottante, in quanto vengono a scontrarsi la convinzione che l’omicidio sia giustificabile finché “umano” e quella che, a prescindere dal modo, uccidere sia ultimamente immorale.
Nei secoli passati era possibile assistere a ghigliottine o roghi, così che la paura e l’orrore dei presenti venissero sfruttati come mezzo di controllo.
In alcuni periodi storici e in diverse nazioni gli scenari erano decisamente più grotteschi ed era possibile presenziare a esecuzioni via annegamento, bollitura, crocifissione, schiacciamento, lapidazione, squartamento e molti altri. Se si prova a immaginare un modo per uccidere un essere umano, questo è probabilmente già stato usato.

E’ importante menzionare il trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria, il quale metteva in discussione le implicazioni etiche della pena di morte e osservava come questa non fosse applicabile nell’esercizio della giustizia, in quanto ingiusta in sé. Detto ciò, il Beccaria espone la propria teoria secondo la quale un cittadino sia però giustiziabile in casi estremi, come la messa in pericolo del paese.

Sorprendentemente, ma non troppo, al giorno d’oggi non sono solo gruppi estremisti o fazioni politiche integraliste che ritengono valida questo tipo di pratica, ma da tutte le classi sociali e tutte le età si riscontrano consensi. Il perbenismo viene messo da parte per fare spazio a una giustizia dal carattere concreto e dai principi essenziali. Le persone sembrano esserne specialmente convinte quando si tratta di criminali incalliti, considerati irrecuperabili, come predatori di minori, terroristi, pluriassassini e malati mentali dalle tendenze sadiche. Nella stragrande maggioranza questi individui non mostrano segni di possibile “guarigione” per quanto riguarda la loro psiche e la morte viene considerata un’opzione più efficiente e addirittura più compassionevole di un ergastolo.

E’ quindi giusto porre fine all’esistenza di un essere umano nel nome del dolore e dei danni da lui causati? Se si pensa che una vita sia inalienabilmente dotata di valore, allora no, non è ammissibile. Mentre nell’ottica del “ripagare con la stessa moneta”, allora la morte potrebbe essere la soluzione, rincarando la dose affermando che colui che si macchia di un reato disumano risulta a sua volta una creatura non più dotata di dignità e decenza.

Presupponiamo, ad esempio, di avere per le mani un uomo trovato colpevole di aggressione sessuale e violenza su minore. Dal punto di vista medico i risultati ai trattamenti per la pedofilia sono discordi e spesso coloro che soffrono di tale patologia tendono a offendere di nuovo, se hanno già agito in precedenza. Il carcere a vita prevedrebbe inevitabilmente un’esistenza di miseria e violenza, visto il clima all’interno dei penitenziari. Sarebbe quindi caritatevole risparmiare ulteriori sofferenze all’imputato ed estrometterlo dalla società definitivamente?
Per citare Joseph Ignace Guillotin: “Con la mia macchina, vi farò saltare la testa in un batter d’occhio, e non soffrirete affatto!” Forse l’inventore della ghigliottina non si riferiva solo al momento dell’amputazione, ma anche ai tormenti risparmiati al malcapitato qualora fosse restato in vita.

Gli oppositori invece sostengono che la pena di morte sia inammissibile in quanto attacco all’inviolabilità e alla dignità della persona. Le prigioni esistono allo scopo di mettere fuori circolazione i criminali. Certo, il sistema carcerario in questo paese non è dei migliori, una situazione cui urge comunque porre rimedio.

La vena della polemica continua a sanguinare, in una società sempre più divisa, che non si risolve ad accordarsi anche sulle questioni principali, che parrebbero effettivamente di vita o di morte.

Marsiletti Eleonora