l’occhio della memoria

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25 gennaio 2020

Filippo aveva sempre amato l’inverno, l’aria gelida contro il viso, il sole basso e pallido che lottava contro il cielo cupo ed uggioso, le dita di gelo che si infilavano sotto i vestiti pesanti per far rabbrividire e battere i denti. Vi era qualcosa di straordinario in tutto ció, una magica ritualità in ognuna di queste sensazioni. Si chiuse il cappotto, sistemandosi la grigia sciarpa che la madre gli aveva comprato. I suoi amici gli avevano detto che era dello stesso colore dei suoi occhi, mentre l’animo artistico della sua migliore amica l’aveva definito “il colore del mistero e della paura”. Non sarebbe dovuto essere un grande complimento, ma lei aveva sorriso, radiosa, e così Filippo non aveva potuto fare altro che ridere a sua volta. Si sentiva ben al caldo, con la sciarpa che gli copriva fino alla punta del naso. Con la mano inguantata afferró il manubrio della sua bicicletta e la condusse fuori dal garage. Si voltó indietro più volte, sospettoso e guardingo: se sua madre avesse scoperto che stava uscendo in bicicletta, lo avrebbe inseguito con una padella fra le mani e, una volta fermato, avrebbe realizzato sulla sua testa una versione violenta e alternativa della “cup song” . Vide che nessuno lo stava osservando e quindi, dopo essere montato con un balzo sul suo mezzo, si precipitò la via.

Per Filippo andare in bicicletta in pieno inverno era un po’ come gettarsi all’interno di una
bufera: schegge d’ aria si scagliavano contro il suo corpo, infilandosi fra i suoi fini capelli
biondi e rizzandogli la pelle, bruciandogli gli occhi e arrossandogli le guance. Molte persone
odiavano quella sensazione, toglieva quasi loro il respiro, ma lui la amava proprio per
questo. L’inverno era la sua stagione perché si calava sulla terra con solenne pacatezza,
chiudeva gli occhi alle piante, assopiva gli animali con il suo soffio di sonno. Era lento nella
sua opera, stendendo con meticolosa quietezza la neve sui campi incolti. L’inverno era un
po’ come un principe accorto ma deciso, cauto ma irremovibile. E per Filippo, che nella sua
vita si sentiva costantemente fuori posto, pungolato da desideri scomodi e divorato dalle
memorie e dai ricordi, la sua regale perseveranza era motivo di ammirazione e di conforto.
Senza pensare pedalò velocemente fra i campi del suo paese, circondato dai silenziosi colli
brianzoli, in un armonioso incontro di natura e civiltà. Si trovó in poco tempo piuttosto
lontano, immerso in quel mondo di quiete e torpore che placava il suo animo irrequieto.
D’improvviso si arrestó di colpo, scese di scatto dalla bici e la lasció cadere sul sentiero
brullo. Si portó le mani agli occhi, strizzandoli dolorosamente; gli succedeva, a volte, di
lasciarsi trasportare dai pensieri e perdere il contatto con il suo corpo, con il dolore fisico.
Probabilmente stava sfrecciando veramente molto veloce. Questo, peró, non lo seppe dire.
Decise quindi di fermarsi un attimo e lasciare che i suoi occhi smettessero di ardere di fuoco
gelido. Intorno a lui la natura aveva spento i suoi colori e distese di bianco candido avevano
coperto l’arcobaleno floreale. Gli alberi spogli dinanzi al freddo parevano accartocciarsi su
loro stessi, annodandosi in intricate maglie appuntite. I campi parevano lo strascico di un
candido vestito nuziale, costellato qua e là dallo smeraldo dei sempreverdi. Un merlo si posó
su un ramo nodoso di un nudo albero poco lontano, il becco ambrato che ricordava il caldo
sole estivo. Il sole ora, in pieno inverno, pareva un fuocherello appena attizzato che faceva
timidamente capolino nel cielo e i suoi deboli raggi giungevano sempre più lenti e fiochi sulla
Terra, come la luce di una stanza che, sul far della sera, si spegne per accogliere il sonno.
Filippo accenó un sorriso e un sospiro gli scappó involontario. Sfregó energicamente le mani
e si strinse nel suo pesante cappotto: la sua breve pausa gli aveva infreddolito le ossa e
quindi pensó che fosse ora di riprendere la sua pedalata. La cima del colle avanzava
sempre più imponente verso di lui, che si staccó persino dalla sella per poter pedalare con
più grinta. Una casa iniziò a prendere forma sulla vetta della collina, prima il solo tetto
malandato, in tegole e ricoperto dalla vegetazione, poi l’intera struttura in sasso, che aveva

retto con fermezza l’usura del tempo. A Filippo spuntó di nuovo il sorriso sul volto, ora
improvviso e spontaneo: era felice di sapere che la vecchia cascina del suo bisnonno
Abramo non aveva subito nessuna trasformazione.
Una volta accostata la bici alla gelida pietra, fece dei passi indietro, stretto nel suo cappotto,
come a voler inquadrare la casa nella sua interezza. Dalla tasca sfiló lentamente una
vecchia fotografia in bianco e nero, stropicciata ai lati e un poco consunta. Era l’immagine di
un giovane uomo, più o meno di trent’anni, alto e snello, vestito in modo elegante che
sorrideva davanti all’obiettivo, mentre teneva per mano un giovane bambino ribelle, che
pareva facesse fatica a rimanere in posa. Lo sfondo era quello di una bellissima cascina,
probabilmente appena ristrutturata. Filippo alzó la fotografia, che si inserì perfettamente nel
quadro invernale che aveva dinanzi agli occhi; i sassi al centro della facciata della casa
seguivano le stesse linee tortuose e appuntite, il tetto, per quanto tagliato a metà, aveva le
stesse tegole tondeggianti, seppur prive delle edere che ora lo infestavano. Tutto pareva
provenire dal passato e manifestarsi nel presente, in un intreccio di ricordo ed evidenza, in
una travolgente ondata di emozioni. Filippo non aveva mai conosciuto il suo bisnonno,
quell’uomo esile e slanciato che sorrideva nella foto. Avrebbe tanto voluto chiedergli cosa
fosse successo a quel bambino ribelle ed energico che era suo nonno per essere diventato
così silenzioso e schivo.
Avrebbe tanto voluto chiedergli cosa avessero visto in quel luogo lontano in cui erano stati
condotti, per aver stravolto la vita di un uomo.
Avrebbe voluto chiedergli cosa avesse provato in quel campo ostile e nemico in cui erano
stati condotti e da cui solo uno dei due era tornato.
Ma i suoi sogni erano solo fantasie irrealizzabili: il suo bisnonno era morto, molto
probabilmente, nel 1944, molto lontano da casa, nel campo di concentramento di
Sachsenhausen. Non “morto”, si ripeteva sempre Filippo, ma “ucciso”. Non sapeva dire se
era stato ucciso dalla fame, dal freddo, soffocato in una camera a gas oppure, ancor peggio,
dilaniato dalla disperazione. Sapeva solo che era stato ucciso, che era stato mandato a
morire con freddezza e disdegno, condannato con odio e ripugnanza per la sola colpa di
essere nato ebreo. Quante volte nella sua vita Filippo era andato a visitare quel campo di
sterminio, quante volte aveva pianto, con il cuore avvolto dallo stesso filo spinato che si
snodava tutt’intorno, davanti a quelle camere, se così si potevano chiamare, in cui FORSE il
suo bisnonno e suo nonno avevano dormito, Forse,ma non ne era certo. Tutto, in quel luogo
di agonia e dolore era velato da dubbi, da domande gridate al vento o silenziosamente
singhiozzate. Nulla in quell’Inferno di morte rispondeva alle domande di Filippo. Nulla
chiariva quei forse, metteva dei punti alle sue frasi interrogative. Ma soprattutto nulla di quel
campo apparteneva sul serio al suo bisnonno e, allo stesso modo, a suo nonno. Loro non
erano quel cielo carico di odio che sovrastava Sachsenhausen, quei muri spogli e ostili che
si ergevano con freddezza, quei numeri che venivano incisi sulla loro pelle.
Loro non erano merce, non erano nemmeno deportati. Quello era ciò che l’odio li aveva resi.
Loro, infatti, erano soltanto uomini, un padre, a cui era morta la moglie, ed un figlio, con mille
sogni e altrettanti capricci. Ed era proprio per questo che quel giorno, il 27 gennaio 2019,
Filippo era andato a visitare la casa del suo bisnonno, come tutti gli anni. Perché era quello il
luogo in cui i suoi due grandi supereroi “ERANO”: uomini, liberi, famiglia.
Ed era anche quello l’ultimo luogo in cui suo nonno era stato un bambino, in cui poteva
ridere, pensare, amare. L’uomo che stava nella casa in paese, che leggeva il giornale e
guardava la TV, che salutava i suoi nipoti con un bacio ma con cui non aveva mai giocato,
non era suo nonno. Quello era un sopravvissuto, un nuovo uomo che era riuscito a farcela,

uno dei pochi fortunati, un padre di famiglia e poi un nonno schivo e muto, costantemente
tormentato dal fantasma del dolore passato. Ma in lui non vi era nulla di quel bambino.
Ed era per questo che Filippo andava ogni anno a piangere sulle mura di quella casa, a
battere i pugni contro la pietra fino a farsi male. Piangeva per quel nonno che non aveva mai
avuto, per quelle parole di conforto che non aveva mai ricevuto, per quel cuore puro che era
stato forgiato per resistere al male, perdendo la sua ingenuità e chiudendosi in un’armatura
impenetrabile.
I nazisti non avevano solo ucciso 6 milioni di ebrei, ma avevano anche lacerato l’anima di
tutti i sopravvissuti.
Ed é per questo che é bene ricordare, imprimere nella memoria quei volti e quei nomi che
vediamo nei documentari o che leggiamo nelle epigrafi. Perché dobbiamo ricordare ciò che
quelle persone erano prima che gli venisse tolto il loro diritto di essere uomini, prima che gli
venisse sottratta la loro anima e venissero costretti a costruirsene una nuova.
Per non dimenticare.
Grisi Luca e Giorgia Riva