La vista che inizia a farsi sempre meno nitida, a poco a poco i contorni delle figure si fanno più sfocati a causa delle lacrime che cominciano a inumidire gli occhi, la sensazione di bruciore alla gola provocato dallo sforzo per non cedere e non far cadere nemmeno una goccia, cercando di non far notare nulla di tutto ciò a chi ti circonda.
Penso che gran parte delle persone abbia ben chiara questa condizione e che magari la abbia anche sperimentata in prima persona. Per quanto mi riguarda mi ci sono ritrovata in più di una occasione, poiché, devo ammettere, sono una persona che in situazioni fortemente emotive o di profondo stress tende ad utilizzare come valvola di sfogo il pianto; tuttavia ciò deve tassativamente accadere lontano dagli sguardi delle altre persone. Proprio per questo motivo sono molto avvezza a ritrovarmi in una situazione simile a quella appena descritta, eppure questa era la prima volta in cui tale reazione veniva generata in me da una ordinaria lezione di filosofia, tale e quale a decine di altre a cui ho assistito in questi anni di liceo.
Ormai da qualche settimana ci siamo approcciati allo studio del pensiero di Friedrich Nietzsche, in particolare durante questa lezione ci stavamo concentrando sulla lettura e sull’analisi di un passo della sua celebre opera “Così parlò Zarathustra”, il cosiddetto brano dell'”albero sul monte”. I personaggi protagonisti di questo estratto sono un giovane, il quale rappresenta l’uomo che aspira ad elevarsi verso l’alto, a distaccarsi da quella che è la conformità della massa per poter giungere in vetta ed elevarsi ad albero solitario sulla sommità della montagna; e il profeta Zarathustra, il quale invece è il saggio maestro verso cui il ragazzo non può fare a meno di provare un po’ di invidia. Tramite queste due figure il filosofo tedesco vuole trasmettere quanto però la missione che il ragazzo desidera percorrere sia tortuosa, vuole rendere l’idea della fatica necessaria per compiere il passaggio da bestia a Übermensch, “oltre-uomo“, quanta nobiltà d’animo e forza di volontà occorra per avere il coraggio di distaccarsi dalla folla e intraprendere una strada isolata. Questa fatica consiste proprio nella difficoltà interiore con cui bisogna fare i conti: infatti, decidendo di intraprendere questo cammino, si va inevitabilmente incontro alla derisione e al giudizio altrui. Difatti l’uomo che decide di distinguersi dalla massa non viene compreso dagli altri individui e rimane immancabilmente isolato; come l’albero solitario in vetta al monte è più esposto ad essere colpito da un fulmine, così anche l’uomo superiore sarà più esposto ai rischi. Il più pericoloso dei quali è, a causa del perpetuo scherno da parte dell’altro, arrivare a disprezzare sé stesso, sentimento che può degenerare fino a diventare auto umiliazione.
È proprio quest’ultimo aspetto che mi ha colpita nel profondo e che è stato capace di smuovere in me sensazioni che ogni giorno lotto per tenere sepolte, vivendo ignorandole come se non ci fossero. Più la professoressa si addentrava nel commento del brano e più vedevo la figura del giovinetto plasmarsi e diventare sempre più simile a me, mi rivedevo in lui, in ciò che provava di fronte alla folla giudicante, schiacciato dal peso dell’isolamento, una situazione in cui si richiede una rigorosa volontà d’animo per evitare di essere sopraffatti. Eppure, tutto ciò dava origine in me ad un interrogativo a cui non sapevo dare risposta. Il giovane deve affrontare tutto ciò perché ha compiuto la decisione di intraprendere il viaggio verso la vetta, intende ergersi al di sopra della massa, aspirare alla libera elevatezza; ma io che non ritengo di avere alcun fine di superiorità, non ambisco ad innalzarmi al di sopra di nessun altro, non desidero sentirmi in una posizione privilegiata, per quale motivo devo affrontare tutte le difficoltà a cui va incontro anche il ragazzo? Perché devo ogni giorno fare i conti con la solitudine, con la percezione di essere fuori luogo dovunque io mi trovi, con la sensazione di essere costantemente sottoposta al giudizio critico di chiunque mi circondi?
Questa domanda è sempre stata sepolta dentro di me negli ultimi anni; ho imparato a silenziarla e a non darle importanza, riparandomi dietro la convinzione che in fondo da sola io mi sento a mio agio, ripetendo a me stessa che in questo modo io riesco a trovare serenità e tranquillità, inducendomi a credere di amare la mia solitudine. Tuttavia, citando Pier Paolo Pasolini, “bisogna essere molto forti per amare la solitudine”, ed io credo di essermi resa conto che questa forza ancora non la possiedo: vivo essenzialmente nell’illusione di amare la mia solitudine. In questi giorni, riflettendo, sono giunta alla consapevolezza che in realtà questo mio amare stare con me stessa è invero semplice odio per le delusioni, puro terrore di essere abbandonata. Qualche anno fa mi è capitato di dover affrontare un periodo molto buio e tormentato della mia vita, che mi ha portato a chiudermi a riccio su me stessa, tagliando i ponti con le altre persone e allontanandole da me. Come strategia difensiva per ciò che stavo provando avevo costruito delle mura fortificate che mi circondavano, dentro le quali credevo di poter essere al sicuro. Le persone che in quel momento mi erano più vicine, fatta eccezione per i miei genitori, a cui sarò sempre profondamente grata, erano rimaste attonite di fronte a quella barriera che avevano visto ergersi improvvisamente tra me e loro. Questo sconvolgimento le ha portate a compiere la decisione di prendere le distanze, senza nemmeno provare ad abbatterle, quelle mura che si erano trovati davanti, anche se, ne sono più che sicura, alcuni di loro erano in possesso degli strumenti giusti per riuscire a farlo. Ero stata abbandonata da coloro a cui tenevo maggiormente proprio nel momento in cui avevo bisogno del loro sostegno più di ogni altra cosa. A posteriori non posso biasimare questo loro comportamento, poiché, riguardandomi indietro, non saprei dire nemmeno io come mi sarei comportata in una tale situazione; tuttavia non riesco a smettere di chiedermi quanto sarebbe stato differente per me quel periodo se li avessi avuti al mio fianco. Suppongo siano queste le radici occulte che si nascondono dietro a ciò che mi trovo a provare ora; come se, per timore che tutto ciò possa ripetersi una seconda volta, io abbia sviluppato la strategia di condividere il mio tempo con chi sono sicura non mi possa abbandonare mai: me stessa. Dal momento che il dolore che ho provato una volta resami conto di non poter più contare su nessuna delle persone su cui prima facevo affidamento e che mi accompagnavano in ogni momento, era stato di gran lunga più distruttivo di quello con cui devo fare i conti ora.
Ma ecco che ricaccio indietro le lacrime, sento il suono della campanella che segna l’inizio dell’intervallo, improvvisamente torno sul mio banco dopo aver assistito ad una ordinaria lezione di filosofia, tale e quale a decine di altre a cui ho assistito in questi anni di liceo.
Anna Pirovano