Questo album supera di gran lunga i confini dei generi nei quali il gruppo norvegese si era precedentemente cimentato. Se i primi album erano caotici e schizofrenici, violenti e grotteschi, questo nuovo lavoro è caratterizzato da un mood estremamente raro e particolare, nonché difficilmente identificabile e catalogabile. E ciò, nella musica contemporanea, è una caratteristica veramente peculiare.
Due i tratti distintivi di “Pitfalls”: il primo, invariato, la voce del vocalist, Einar Solberg, che, con uno strano e assurdo range vocale porta l’ascoltatore a trip pazzeschi. Il secondo invece è la parte strumentale: basso e chitarra non la fanno più da padroni, ma vengono soverchiati da una batteria arzigogolata, quasi sempre in complessi tempi dispari, e da synth e tastiere, che conferiscono sound cupi ed eterei. La prima intro di chitarra distorta arriva solo nel quarto brano, “By my throne”.
Le tematiche sono personali e pesanti, come depressione e solitudine, e vengono affrontate egregiamente in testi carichi, densi di sensibilità morale. L’opera si presenta dunque come un lavoro dai toni grigi, tristi e nostalgici. I contorni dell’album sono sfumati, e i brani sprigionano un’aura greve e opprimente: attraverso un lungo percorso di introspezione e riflessione il narratore-agens arriva alla schizofrenia più totale, evidente nella traccia di chiusura.
Il disco può essere dunque paragonato a un complesso viaggio, che raggiunge il suo apice con la catabasi nel delirio interiore del narratore. Egli rigetta ossessivamente ogni speranza, e la sua mestizia si acuisce sempre di più.
La copertina del disco assume un’importanza fondamentale nella musica prog, e questo album non fa eccezione: l’atmosfera nebbiosa che circonda un’enorme e pacifica statua di un Buddha ci rivela l’essenza malinconica dell’album, e sulla spalla del gigante trova posto un piccolo pifferaio, oserei dire di reminescenza zeppeliniana. Come nei migliori lavori dell’art rock, il culto dell’immagine dei musicisti è trascurato, e la parola viene completamente affidata all’arte.
L’opener dell’album, la spettacolare “Below”, ne chiarisce il leitmoti. Ci troviamo davanti a un brano dalle tinte scure, che si dipana in un ritornello tanto sublime quanto disperato. Ed anche parecchio orecchiabile. Le abilità del vocalist raggiungono picchi elevatissimi, e una batteria lentissima e precisa conferisce al brano un senso di oppressione. Le tastiere e i sintetizzatori regalano una nebbia fosca e imprecisata, che viene ripresa dalla successiva “I lose hope”.
Altra perla del disco è “Distant Bells”, che, dalla massa cupa e inquietante iniziale, si dissolve in un pezzo energico e terribilmente difficile da riprodurre, contraddistinto dalle contaminazioni con la musica sinfonico-orchestrale. Il filo conduttore dell’opera viene finalmente ripreso e racchiuso in “The Sky is red”: una sintesi teatrale ed epica. L’album si chiude così in una ringkomposition delirante e depressa, che raccoglie definitivamente il concept del lavoro. Ah, quest’ultima traccia dura ben undici minuti. Certo, perché il mondo della musica progressiva è questo: l’assenza di limiti nelle tematiche trattate o nella strumentazione utilizzata, il virtuosismo costante o la contaminazione tra generi.
Concentrare l’analisi di “Pitfalls” in una mera questione stilistica sarebbe però riduttivo. Siamo di fronte ad un’opera di rara bellezza, che ci ricorda il motivo per il quale esiste la musica: la comunicazione universale.
Miglior album del 2019? In ogni caso, lo consiglio a tutti quelli che vogliano cimentarsi nell’ascolto.
VOTO FINALE: 95/100
Pietro Locci
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