dialogo tra la natura e arthur

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24 novembre 2020

27 novembre 2120

Dopo qualche mese di pausa dai miei viaggi nel tempo, avevo deciso di rilassarmi nella torrida estate tipica del cambiamento climatico, che ormai aveva raggiunto il suo apice, giocando ad un gioco di quelli che gli umani clonati qui chiamano “sport”. In particolare all’inizio mi interessava il tennis- tempo prima infatti avevo incontrato due tennisti, l’uno spagnolo l’altro dal nome impronunciabile, davvero eccezionali – tuttavia, dopo circa 300/400 partite contro i robot (esseri spietati e instancabili) sentii dentro di me la strana sensazione di immutabile ripetitività a cui, dopo essere andato a cercare nell’enciclopedia digitale TreRobot, ero riuscito ad attribuire il nome di “noia”.

Questa ricerca mi riportò alla mente delle scartoffie che, durante un viaggio nel tempo che mi aveva condotto negli anni attorno al 1860, avevo ritrovato nello studio di un dotto professore dell’università di Berlino, di nome Arthur. Fra queste vi era un foglio, più precisamente un dialogo, intitolato “dialogo tra la natura e Arthur”, alla fine del quale vi era la firma di un certo Giacomo.

Mosso dalla mia curiosità non avevo potuto fare a meno di leggerlo, saltando ovviamente la parte inziale – si sa, le introduzioni sono sempre noiose ed inutili – e cominciando la mia lettura da una strana affermazione di Arthur, un uomo particolarmente cupo e rassegnato:

A: “Dopo anni di studio filosofico sono arrivato alla conclusione che la vita dell’uomo è come un pendolo che oscilla incessantemente fra la noia e il dolore, con intervalli fugaci, per di più illusori, di piacere e felicità.”

La Natura al sentir quelle parole così pessimiste non esitò a rispondere.

N: “Suvvia caro Arthur, non credo che tu abbia passato tutta la tua vita soffrendo! Voi tutti soffrite, è parte delle vostre vite!”

Arthur rimase sbalordito, non credeva che vi fosse qualcuno in ascolto. Alla vista della Natura rimase dapprima atterrito, come al cospetto di un’essenza divina, poi divenne rosso in viso, mentre l’indignazione prendeva il sopravvento su di lui: “Come osi tu parlare di sofferenza, quando sei solo un ente astratto e immutabile? Come osi tu parlare di sofferenza, quando sei tu ad esserne la causa?”

La natura sorrise placidamente e senza scomporsi rispose: “Io la causa di tutto ciò? Per esserne causa dovrei esserne cosciente, eppure io non conosco modi per far soffrire gli uomini. Io dono la vita, ma non me ne curo”

Arthur, sbalordito dalla risposta che aveva dato la natura, riprese la sua invettiva, senza aver davvero ascoltato le sue parole. Riprese ad accusarla, attraverso machiavellici discorsi e confutazioni filosofiche, di aver oppresso l’uomo, privandolo della sua libertà interiore. Parlava e straparlava, inveiva contro la Volontà, secondo Arthur creata dalla Natura, forza cieca e vivificante, fine a sé stessa, che incatenava l’uomo nel suo essere.

Nel frattempo la Natura taceva, impassibile di fronte alla sua follia oratoria.

Arthur, poi, quando ebbe finito la sua argomentazione, aggiunse, quasi sfinito dal suo stesso impegno: “Io vorrei solo essere felice, essere felice per sempre. Al diavolo l’arte e la moralità, soluzioni fugaci che il mio intelletto non fa in tempo a cogliere, che già sono sfuggite. Io vorrei solo che l’unico modo per liberarmi da tutto questo non fosse la morte, ma così non è. È lei la sola soluzione! Ed è tutta colpa tua!”

Arthur fremeva di rabbia dinanzi alla Natura, tuttavia, con il sorriso placido di chi raccoglie in sé la verità e nulla lo smuove, lo guardava imperturbata: “È così buffo vedere come l’uomo non cambi mai, che non vi siano cure né scienze della mente che lo possano indurre alla comprensione. Detto ciò, ribadisco che né io, né un qualche Dio, né gli antichi dei potranno risolvere i problemi dell’uomo. Rimarrà per me sempre un mistero la vostra tendenza autodistruttiva di accusare terzi per i vostri limiti, per i vostri errori. Ma di ciò non mi curo. Io seguo il mio ciclo immutabile e dovreste essere voi, per una volta, a guardarvi dentro, a cercare nei meandri dei vostri animi quella coscienza che con sontuose parole e solenni discorsi offuscate e soverchiate, per arrivare alla consapevolezza che gli unici responsabili delle vostre azioni siete voi e voi soltanto. Solo allora, dopo aver affrontato la realtà, potrete davvero riconoscere la verità, come un piccolo fiore giallo che, colto dalla lava del vulcano, accetta il suo destino, consapevole di rinascere altrove”

Probabilmente Arthur Schopenhauer aveva molto da aggiungere, altro di cui lamentarsi, dinnanzi alla verità, arroccato nella sua torre di conoscenza, ma non ebbe il tempo di rispondere perché, già da tempo malato di pleurite acuta, arrivò ad esaudire il suo desiderio, morendo tra le sue carte e i suoi pensieri e seguendo il ciclo della Natura…  

Gabriele Lochi