Arthur,
mi ritrovo a scriverti dalla mia stanza confusa, mentre tu, distante duecento anni da me, chissà dove sei ora.
Ho sempre pensato che voi filosofi non verrete mai compresi per davvero. Chissà quante delle cose che hai pensato tu ora sfuggono ai manuali scolastici, chissà come vivevi le tue giornate, con quali pensieri ti svegliavi la mattina e quali lasciavi in custodia alle notti più buie.
Siamo tanto distanti, ma posso dirti che mi sento più vicina a te rispetto che a tante altre persone che ho intorno. Nelle tue parole ritrovo l’essenza più profonda dell’essere umano: ci parli di quanto esso sia dilaniato, sofferente, in lotta, estenuato dall’idea che non esista alcun senso nè un punto fermo, del suo sentirsi all’interno di un inferno e del suo non sapere come uscirne. Ci dici che l’uomo, limitato, mai soddisferà i suoi desideri, ma anche che allo stesso tempo è condannato a desiderare e desiderare, mosso da un’infinita volontà fine a se stessa, logorante e inevitabile.
É una condanna, vero? É una condanna essere destinati al desiderio. De sidera, dal latino, è mancanza di stelle. É una condanna, perché quelle stelle a cui siamo chiamati rimarranno sempre lontane. Hai forse ragione tu? Come darti torto?
Dici che il mondo è irrazionale, che la realtà è una falsità, un’illusione, che nessun Dio esiste, che l’uomo si racconta e crede a menzogne soltanto per reggere la durezza della vita.

Non lo so se hai ragione, sai. Forse non voglio darti ragione, Arthur, perché se così fosse, vivere non avrebbe alcun senso. É vero, la consapevolezza porta dolore: è un po’ come diceva Pirandello riguardo lo strappo nel cielo di carta. L’eroe Oreste agisce con fermezza finchè non si ritrova davanti alla cruda ed evidente realtà: si blocca e si trasforma in Amleto quando l’illusoria credenza nell’esistenza di una verità assoluta si spezza. L’uomo, finchè non si interroga, non ha motivo per cui soffrire. É quando lo fa che subentra il dolore. E tu hai sofferto tanto probabilmente perché quel cielo lo hai strappato con molta rabbia e sete di risposte.
Ma allora… la consapevolezza porta al dolore, il desiderio porta al dolore, la noia porta al dolore. Possibile che sia davvero questo il destino di ciascun essere umano? Possibile che i momenti di felicità siano solo piccoli e brevi scenari illusori? Voglio credere che il pensare e il soffrire troppo ti abbiano solo un po’ annebbiato la vista sulla vita, voglio credere che ti sia sfuggito un qualcosa di più grande capace di dare un senso a tutto questo.
Penso che la vita spesso faccia tanto male, ma alla fine sono i momenti di felicità a lasciare il segno nello scorrere della vita e a rimanere impressi veramente. Sento che esiste un’infinita bellezza a cui siamo chiamati che sa decifrare questo dolore, sa dargli un nome, lo sa esternare, ridurre in frammenti, lo sa vincere. Questo è quello che secondo me fa l’Arte: dimostra che è la felicità ad essere indelebile, mentre il dolore affrontabile.
Anche tu dici che l’arte è una tregua momentanea, un respiro, un bagliore di luce nel buio della vita. Però tu la riduci ad una trasognata estraniazione dalla realtà, ad un momento di contemplazione destinato a finire e far ricadere l’uomo nell’oblio della sua sofferenza. É di più. Te lo posso giurare. Non è illusione, è concretizzazione della vita nel dolore. Ti parlo dell’arte che sento mia, quella con cui sono cresciuta e con cui ho a che fare ogni giorno.
Ero nella mia stanza, sempre quella da cui ti scrivo ora. Una delle mie sorelle era di fianco a me e guardava alcuni dei miei disegni: “ma sono tutti così tristi”, mi ha detto. Aveva ragione. Mi capita molto raramente di scrivere o di prendere in mano un pennello quando sono all’apice della mia felicità. L’arte fluisce quando si entra a contatto con l’essenza vitale dell’essere, e spesso questa coincide con il dolore. L’arte è pura vita, è una sua arteria, è la concretizzazione di tutto quello che non si riesce a esprimere a parole. E l’arte è tanto più vera quanto più si avvicina alla profondità dell’uomo, e questa profondità la si raggiunge con la consapevolezza. E penso che spesso questa derivi proprio dal dolore e allo stesso tempo ne sia la causa. Ecco, l’arte prende il dolore e lo trasforma. Lo plasma, gli conferisce un’identità, un nome. Ciò che passa attraverso l’arte non rimane inalterato. L’arte è la manifestazione di un processo molto profondo, di un senso che tende all’infinito. Non si distacca dal dolore, ma lo tocca a mani nude. Non si eleva al di sopra della volontà e del desiderio, invece ci naufraga dentro, ci si perde, si confonde, fa propria quella lontananza dalle stelle, crea una voragine ancora più profonda nell’anima, finché non trova una propria collocazione e non trasforma tutto quello struggimento in opera. Ma non lo cancella, piuttosto gli si pone accanto. Ti parlo di Vincent Van Gogh perché ne sono innamorata: lui tutto il dolore dell’incomprensione (era folle) lo ha riversato in una maniera sublime su quelle sue tele uniche. Non guarì mai dal suo dolore, ma l’arte gli aveva dato la possibilità di entrare in contatto con l’essenza della vita, delle cose. Lui viveva della stessa energia di cui vivevano le piante, il vento, il sole caldo. E tutto questo sfociava nell’arte. La sua arte, la casa della sua sofferenza.
Non penso che l’arte possa colmare quel senso di distanza nascosto nel cuore di ogni essere umano. Non penso possa far cessare di battere un cuore pulsante di dolore, né far cicatrizzare le ferite, né asciugare lacrime. Anzi, forse alimenta tutto questo per dargli una forma ulteriore. É una forza che strappa ancora più a fondo la carne del corpo per far sanguinare tutta la poesia che sta all’interno dell’artista. Tasta le ferite aperte per farne uscire l’essenza più profonda. Tocca delle corde dell’anima che sarebbero irraggiungibili con altri mezzi. É quasi inspiegabile, è al di là.
Artur, probabilmente l’uomo è destinato ad essere incompreso fino alla fine dei suoi giorni. Forse è questa la fonte maggiore di sofferenza, non pensi? Il desiderio di non esser soli. Però c’è del sublime che, affiancato a questo dolore, ci permette di respirare e di farci andare avanti nella ricerca di un senso, in mezzo a questo caos.
Se ora fossi qui, probabilmente ti chiederei di te. Proverei a capire meglio dal tuo sguardo che cosa pensasse il tuo cuore in verità. Ti chiederei se non hai mai provato quella felicità indelebile di cui ti ho parlato, se davvero (e soprattutto come mai) tutta la bellezza che cela in sè la vita, a te non sia rimasta impressa. Vorrei raccontarti della sensazione stupenda che sento nelle mani quando, soffocata dalla stessa realtà per cui anche tu soffrivi, prendo in mano una matita e improvvisamente la tachicardia si tramuta in tratti grigi, mentre il mio sangue torna a fluire come un fiume calmo. Vorrei raccontarti del mondo che mi si crea dentro quando tocco i tasti di un pianoforte o ascolto un brano di musica classica in un giorno di pioggia. Queste cose non sono illusioni, esistono eccome! Sono così concrete.
Una mattina di dicembre annotai sulle note del mio telefono: la musica è metafisica. Qualche mese prima: la felicità deve avere per forza il sapore della musica. O ancora: mi sento viva solo con la musica. Per il resto, dovunque è nebbia e freddo.
Vorrei raccontarti di quanto la vita sia più arte che altro, e del fatto che la felicità sia molto meno illusoria di quanto tu dica. E ti direi che sì, tutto il dolore di cui parli è vero. Ma che c’è una parte di bellezza che ti sei dimenticato di considerare.
Arthur, la meraviglia è reale, e l’uomo, finchè questa esiste, non si arrenderà mai davvero di fronte al dolore.
Con tutto il cuore,
Marta Fumagalli