“La sindrome pseudobulbare (o paralisi pseudobulbare) è una condizione caratterizzata dall’incapacità di controllare i muscoli del distretto facciale, causata da diverse malattie neurologiche. I pazienti tipicamente presentano difficoltà nella masticazione, disfagia, spasticità della lingua”.
Era alto, magro, aveva soltanto gli occhi che bramavano qualcosa che non poteva avere. Si aggirava per le strade dei bassifondi della metropoli con un fare oscuro e misterioso, simile a un gatto nero randagio in cerca del cibo. Egli veniva chiamato semplicemente Arthur e si divertiva ad essere schernito dai ragazzini, a tal punto da giocare “a darsi calci e pugni tutti insieme”, cosicché, se la sera tornava stremato e con qualche macchia viola sugli occhi, era felice, perché aveva giocato con i bambini. Svolgeva un lavoro nobile, quello di mostrare alla gente le pubblicità di negozi e catene alimentari famose vestito da clown, tutto questo unito ad un costante sorriso e brio, che lo contraddistinguevano dalle persone ordinarie.
Aveva una madre di nome Penny, malata di un male incurabile, l’Alzheimer, ed egli era sempre con lei la sera per alleviare tutti i dolori con la sua felicità. Erano soliti vedere un celebre talk show, il cui presentatore si chiamava Murray Franklin, uomo burlone che amava trattare con tanta gentilezza quelli più sfortunati di lui, accaparrandosi l’attenzione e le risate della gente. Il sogno di Arthur era quello di diventare un grande cabarettista proprio come lui e difatti cercava di impegnarsi a rendere felice le persone con le sue battute. Non si sa il perché, però, andava a finire sempre che a ridere era solo lui, con la gente che lo guardava davvero affascinata per il suo talento immenso. Settimanalmente si recava da uno di quei dottori dei servizi sociali, offerti dallo stato per le persone illustri, con l’obbiettivo di alienare questa sua incontrollabile felicità. La fortuna vuole che il nuovo candidato sindaco Thomas Wayne, uomo magnanimo e dalla particolare ricchezza d’animo, da lì a poco avrebbe annunciato tagli riguardanti proprio il settore dei servizi sociali, facendo perdere ad Arthur quella compagnia interessante e, nello stesso momento, il lavoro, a causa di quei “giochi” con i bambini. Tuttavia egli non perdeva quella voglia di ridere e, grazie all’aiuto di un suo collega, ora possedeva anche la capacità di difendersi. Successivamente alle due perdite che aveva subito, tornando dall’ultimo giorno di lavoro da clown, si era imbattuto in tre giovani yuppies, gente elegante che posa i suoi occhi solo su quello che sono soliti chiamare “dio denaro”, i quali vennero attratti dall’improvviso scoppio di risata di Fleck. Sentendosi offesi dall’azione ingiuriosa, iniziarono a giocare “a darsi calci e pugni” con lui, ma quella volta un senso di doveroso rispetto verso quei ragazzi portò Arthur a porre fine alla loro vita. Questo provocò una sensazione strana in lui, che come un bimbo tornò dalla madre a raccontare il tutto, dicendo: “Mamma, finalmente sono riuscito a vincere il gioco!”. La madre tuttavia non rispondeva ai continui richiami ed aveva smesso di ridere insieme a lui a causa di un improvviso ictus, che aveva costretto Fleck a portarla in ospedale. In quell’attimo egli aveva sentito un piccolo dolore al petto, quasi come se questa felicità fosse scomparsa per qualche secondo, come se il ridere venisse sostituito dal piangere. L’unica cosa che allontanava questo sentimento strano e spiacevole era la visione della ragazza che viveva proprio di fronte alla sua casa, che aveva conosciuto tempo addietro e proprio in quel momento era lì al suo fianco, per consolarlo da quel male. Proprio lei, successivamente, lo spinse ad iniziare la carriera da cabarettista, partecipando a un provino in un famoso bar dei bassifondi di Gotham.
Al ritorno a casa questa sua visione sparì ed egli trovò proprio sul tavolo della cucina una lettera, scritta dalla madre ad un certo Thomas Wayne, dove era indicato che Arthur era suo figlio e che, come citava la stessa lettera, “doveva riconoscerlo”. Questo alimentò in lui il desiderio di conoscere il suo passato e quello di sua madre, portandolo quindi a recarsi ad un evento di “beneficienza” indetto dal neo sindaco della città, dove tuttavia ebbe solo una breve e rapida risposta dal gentiluomo: “Tua madre era pazza”. Non accettando quelle parole, il ragazzo se ne andò ridendo a crepapelle e si diresse verso l’ospedale, dove giaceva ancora la madre, che aveva ormai lasciato il suo piccolo clown in preda alle gioie del mondo, clown che, sebbene in preda alla gioia, voleva a tutti i costi comprendere le vicende del suo passato. Dunque si diresse verso l’archivio delle cartelle cliniche, dove trovò un simpatico signore, tuttavia abbastanza riluttante nel consegnarli la cartella di sua madre. Dunque Arthur, con un colpo di gentilezza, la prese in prestito e, tra le righe di quella raccolta di cartacce, lesse “richiesta di adozione di Arthur Fleck da parte di Penny” e scorrendo le pagine lesse anche “presenza di lividi sul corpo del bambino”.
Riaffiorarono all’improvviso nella mente del clown tutte quelle carezze che aveva ricevuto da piccolo, sia da parte della madre sia del padre, che non era il signor Wayne, ma una persona così affabile da avere sempre un occhio di riguardo per la faccia del piccolo Arthur, che conosceva bene la forma del calorifero. Questi ricordi vennero interrotti da un’improvvisa telefonata del suo amato Murray Franklin: “Ragazzo, sono rimasto colpito dalle tue battute a quel provino, che ne dici se vieni a far ridere la gente qui nel mio Show?”
Fleck non esitò a indossare gli abiti da clown, presentandosi da lui dopo due ore, proprio nel momento in cui stava per iniziare il programma. All’inizio della diretta Murray venne accolto dalla solita sigla “That’s life” di Frank Sinatra e subito dopo chiamò lo stesso Arthur: “Signori e signore, vi presento il più grande cabarettista di sempre, Arthur Fleck” . La gente, alla visione di quella faccia da clown, scoppiò in una risata collettiva, che provocò nel ragazzo un sogghigno, che al momento dell’inizio della barzelletta si trasformò nella sua risata. Rideva talmente tanto che quasi non respirava, provocando le battute gentili di Franklin, che generarono un momento di ilarità nello studio. Arthur in quel frangente provò la stessa sensazione che aveva provato giocando con quei ragazzi yuppies, quindi sferrò una sua carezza a Franklin, interrompendo quell’istante di mera felicità.
Il clown aveva nuovamente vinto il gioco, ma stavolta quel gesto causò nella piazza centrale di Gotham un sentimento di rivalsa nelle persone. Tutte coloro che avevano ricevuto le carezze affettuose della società gentile, si vestirono da clown e iniziarono una vera rivolta, di cui Arthur era diventato il simbolo.
Era semplicemente l’inizio della storia di un giullare, la cui fama l’avrebbe poi preceduto e il cui nome sarebbe risuonato nelle orecchie dei più deboli come richiamo alla rivalsa e in quelle dei più forti come melodia di morte. Questo era l’inizio della storia del giullare JOKER.
Gabriele Lochi