
Tra i tanti approfondimenti ai quali ho avuto modo di partecipare durante la settimana di pausa didattica, quello intitolato “ 50 anni di hip hop” è probabilmente quello che mi ha colpito di più. Sinceramente mi ero iscritta abbastanza per caso, pensando tra l’altro di assistere ad una lezione di ballo. A differenza di quanto pensassi, l’hip hop non è solo uno stile della danza: è in generale un movimento artistico e culturale che abbraccia più ambiti. Tra questi il rapping, il breaking (il ballo) e il graffitismo.
Entrambe le ore sono state supportate dalla presenza di una presentazione sulla lim, particolarmente colorata e perfettamente in tema con l’argomento proposto.
Cominciò tutto da una semplice festa organizzata da DJ Kool Herc che, notando il maggior coinvolgimento della folla in particolari passi delle canzoni, quelli scanditi semplicemente da basso e batteria, provò a riprodurre solo questi, uno dopo l’altro, anche se appartenenti a brani diversi. Il procedimento era macchinoso, ma comunque riscontrò un grande successo.

Nacque così, l’11 agosto 1973 nel Bronx newyorkese, quello che oggi conosciamo come hip hop.
Fase fondamentale del movimento è stato il fenomeno dei block party promosso da DJ Afrika Bambaataa: erano feste di strada, in cui i giovani afroamericani interagivano suonando, ballando e cantando a ritmo della musica, cogliendo la possibilità di estraniarsi per un attimo dai conflitti violenti che caratterizzavano le strade del quartiere fino a quel momento.
La prima vera e propria canzone hip hop (dotata quindi di strofe e ritornello) è inaspettatamente “Raptor”: un brano dei Blondie, una rock band di bianchi americani.
Parecchio strano, visto il contesto nel quale nacque l’hip hop. La verità è che inizialmente questo nuovo modo di fare musica voleva essere una cosa intima e limitata al Bronx.
Nessuno dei “fondatori” avrebbe voluto portare al di fuori di Manhattan questa novità. Ci pensarono quindi i Blondie e in particolare la loro cantante.
Negli anni seguenti, l’hip hop ha perciò varcato i confini del Bronx, ma non solo. Ha cominciato ad espandersi in tutto il mondo e ad influenzare la vita dei giovani ascoltatori in diversi ambiti, come, ad esempio, nel mondo della moda. Fu infatti forse grazie agli outfit dei RUN DMC, trio di rappers di quegli anni, che l’Adidas prese particolarmente piede tra i ragazzi.
Negli anni 80 iniziarono a emergere rapper poco convenzionali, che cantavano della realtà dei quartieri di periferia, spesso accusando la polizia e tutti quelli che avevano potere.
Ci furono tentativi da parte delle autorità di censurare questa musica tanto cruda e volgare, seppur realistica, ma facendo leva sul diritto alla libertà d’espressione, queste accuse caddero, dando la possibilità a questi artisti di continuare a fare da portavoce dei problemi di una dura realtà forse troppo in ombra.
Nel decennio successivo nacque una sorta di faida tra i rappers della East Coast e quelli della West Coast, che vedevano come maggiori esponenti i nomi celebri di Notorious BIG e Tupac Shakur. Il conflitto tra le due fazioni si concluse tragicamente con la morte dei due, dovuta probabilmente a cause esterne, ma ormai da anni attribuita a quelle circostanze conflittuali.

Dopo la loro scomparsa, East e West Coast si impegnarono a riappacificarsi per evitare che qualcosa del genere potesse capitare di nuovo e in questo contesto nacque la canzone “East Coast West Coast Killas”.
La lezione è poi proseguita tramite la visione di videoclip di artisti degli anni 2000, 2010 e 2020 , in maniera non troppo dettagliata, anche perché sicuramente questi musicisti sono a noi più noti.
Devo dire che tutte le due ore sono state estremamente interessanti, ma chi non è riuscito ad iscriversi all’approfondimento non si preoccupi: il prof Colombo a fine corso ci ha lasciato il QR code di una playlist riassuntiva di questi 50 anni di hip hop!

Olga Villa